Dedicata a tutti gli Italiani che in qualsiasi posto del mondo hanno sofferto per potersi procurare una vita più dignitosa di quella offerta in patria.

La pala che prima penetrava nel terreno quasi senza fatica si
fermò.
Riprovò più dolcemente e la pala si fermò ancora.
Cominciò a piangere, si inginocchiò …

 

Era ancora notte quando si alzò. Si vestì velocemente, prese la sacca con il thermos pieno di caffè fatto con la cicoria e con la bicicletta raggiunse il suo luogo di lavoro. Una fredda notte di novembre, senza luna e con la sola luce di qualche lampione per guidarlo in quei due chilometri di strada. Non aveva messo nemmeno la dinamo per il fanale tanto quella strada la conosceva benissimo visto che la faceva da anni al buio quando gli toccava il turno di notte. Ma oggi era una notte speciale del lontano ’69.

Non c’era bisogno di legarla la bicicletta, la posò sul mucchio e si avviò. Passò a ritirare la sua lampada e con la coda dell’occhio vide un gruppo di persone silenziose nell’ufficio del direttore. Non voleva farsi vedere e così accelerò il passo. Passò alle docce per indossare i vestiti da lavoro e si incamminò seguendo i binari. Un suo compagno lo stava già aspettando e con la testa gli accennò che non c’erano novità. Lui non fumava ma forse in quel momento una sigaretta l’avrebbe anche accettata perché poi per otto ore non sarebbe stato possibile. Le facce erano lunghe e il silenzio avvolgeva tutto e tutti. Anche quando arrivarono gli altri componenti della squadra, le uniche parole pronunciate furono un “salut” e il solito gesto con la testa che annunciava: nessuna novità.

Il suono lacerante della sirene ruppe questo silenzio, l’area si illuminò a giorno e un lampeggiante arancione si mise in funzione. Lentamente quelle persone nell’ufficio del direttore si avvicinarono in silenzio. Dal corridoio dove si erano fermati, arrivò una leggera aria come quando si aspetta il treno nelle stazioni vicino alle gallerie o come in metropolitana all’arrivo del convoglio Ci vollero cinque interminabili minuti e poi la cabina arrivò. Quelli della squadra precedente uscirono con le facce nere e si accesero immediatamente le sigarette. Tutte quelle persone si fecero intorno a loro ma dai loro sguardi si capiva che ancora una volta non c’erano novità e forse anche le speranze erano oramai finite. Lui e quelli della sua squadra si scambiarono qualche indicazione tecnica con quelli appena arrivati, una stretta di mano come si usa da queste parti e presero posto nella cabina. Un tuffo nel buio in un fracasso di ferraglia dovuto alla vibrazione dei cancelletti. L’aria gelida che sfiorava i loro visi lentamente si addolciva con il passare del tempo. Qualche lucina passava rapida davanti ai loro occhi, segno che stavano ancora scendendo ad alta velocità. Poi lentamente l’aria e il rumore diminuirono e dolcemente l’ascensore si fermò. Il manovratore aprì le porte e si trovarono a men quattrocento metri, nel punto più profondo raggiungibile con i mezzi meccanici. Accesero le lampade poste sul casco e si avviarono lungo la galleria. Tutti i tubi di servizio erano stati messi lì per terra alla rinfusa e loro seguendo questo groviglio riuscirono a raggiungere il nuovo pozzo in costruzione. Iniziarono la discesa lungo la scala in ferro fino giù dove l’ingegnere e altri capi li aspettavano. Loro non erano risaliti da due giorni e tranne qualche momento di pausa passato nella guardiola del manovratore non si erano mai mossi da quel pozzo per dirigere le operazioni di soccorso. Questa era la dodicesima squadra che scendeva e per lui questa era la terza volta.

Mentre prendeva la pala per spostare questa terra ripensava all’ansia con la quale era sceso la prima volta, il tempo era fondamentale bisognava far presto e incurante della fatica lui e i suoi compagni furono i primi ad accorrere. Quel pozzo era illuminato solo dalle lampade dei loro caschi e il materiale che spostavano non sapevano dove metterlo. Furono ore di lavoro spasmodico e senza un minimo di organizzazione perché continuava a ripetere “dobbiamo togliere la terra e subito se vogliamo salvarli”. Poi mentre loro con i pochi mezzi a disposizione continuavano a scavare, le altre squadre prepararono quella che adesso chiameremmo la logistica. Arrivò l’aria con i tubi e poi la luce con le fotoelettriche. Poi prepararono un sistema provvisorio per portare via il materiale. Poi arrivarono le armature nuove per consolidare il terreno. Ma fu tutto inutile, arrivarono le altre squadre per sostituire i primi soccorritori e non fu poca la fatica per costringerli ad andare a riposare. Erano certi che i loro colleghi erano lì a pochi centimetri e togliendo quell’ultimo sasso li avrebbero liberati. Forse una trave avrebbe potuto garantir loro un po’ di aria, oppure c’era quella nicchia costruita per le macchine nella quale avrebbero potuto trovar riparo. Il fondo di questo pozzo era buio e dopo questo incidente tutto era stato ricoperto. Le ore passavano e nessuno osava dir loro che con ogni probabilità i loro compagni era seppelliti a più di dieci metri di profondità, quasi tre piani di terra da togliere a mano con le pale. Anche lui lo sapeva ma non voleva arrendersi e continuò fino allo strenuo delle forze. Il giorno dopo si ripresentò ancora come volontario e questa volta fece la sua parte ma a questo punto le speranze erano veramente esigue.

Bruno Ferrazza, uno dei minatori mantovani.

Poi il compito cambiò ed ora si trattava di restituire i corpi ai loro familiari e questo era diventato per lui il giuramento fatto a se stesso. Mentre scendeva da quella scala a pioli si rendeva conto che sarebbe stato impossibile salvarli. La prima parte del pozzo era in materiale relativamente solido ma a venti metri avevano incontrato uno strato si materiale friabile e per giunta molto bagnato. Le armature cedettero e il crollo riempi il pozzo fino a quota men dieci. Ora tutto il pozzo era stato rimesso in sicurezza e loro stavano scendendo gli ultimi metri quasi al livello raggiunto al momento del crollo. Tutto il materiale roccioso era stato tolto e la pale effettivamente affondavano in quel materiale che probabilmente era stato la causa di questo crollo. Erano già passati quattro giorni da quel fatidico giorno quando sentì il boato del crollo dalla galleria lì vicino. Il suo lavoro consisteva nello scavare gallerie per raggiungere le vene di carbone. Poi altri minatori si infilavano in queste vene e con i martelli pneumatici lo facevano cadere nei carrelli per poi essere portato in superficie. Lui si occupava di perforatrici ed esplosivi i e dopo aver fatto brillare le mine caricava il tutto con le mini ruspe, ma adesso era lì con le sue mani a cercare questi corpi per poterli almeno rendere alle loro famiglie.

Giovanni Ferrazza, un altro dei minatori mantovani in Francia.

La pala che prima penetrava nel terreno quasi senza fatica si fermò. Aveva trovato di tutto in questo terreno. Quando aveva cominciato quattro giorni fa era tutto un groviglio di fili, tubi, pezzi di ferro sassi grossi come angurie ma da qualche ora la pala entrava senza fatica in questa terra nera. Riprovò più dolcemente e la pala si fermò ancora. Cominciò a piangere, si inginocchiò avvicinò la lampada che aveva vicino e con le mani cominciò a spostare questa terra nera e unta, le sue lacrime continuavano a scendere mentre la sue mani sempre più rapidamente spostavano la terra. Sentì il tessuto ruvido della tuta che portavano i minatori e capì che aveva toccato il corpo del suo compagno di lavoro. Gli altri avevano intuito ciò che stava accadendo e si avvicinarono, “l’è lu!!, l’è lu!! ven chi!!” gridò. Certo che questo è mantovano, ma giù nelle miniere di carbone nel nord della Francia, a quattrocento metri di profondità nessuno badava alla lingua, tutti si capivano ugualmente. E così, forse per una frazione di secondo qualcuno avrà anche pensato al miracolo ma dopo che lo ebbero liberato dalla sua prigione di terra capirono che era effettivamente morto. Lui si allontanò e fu preso da un pianto irrefrenabile. Arrivarono immediatamente tutte le persone preposte alle operazioni per il recupero delle salme e sostituirono immediatamente la squadra di soccorso ma lui volle rimanere fino a quando non ebbero estratto l’ultimo dei quattro compagni periti in questa tragedia.

Seguirono dei mesi difficilissimi e lui, mio zio Giovanni, che aveva fatto la campagna di Russia, che aveva passato tre anni in prigionia, sempre in Russia ricordava sempre questo episodio come il più brutto della sua vita.

Poi dopo qualche anno vennero chiuse le miniere e lui tornò in Italia a fare il muratore.