TUTTO IL “CUORE” DI SERGIO, BANALI – Alcuni retroscena della vita di “Tato” giornalista, scrittore e personaggio
Sergio Banali, detto “Tato”, nato a Goito il 20 ottobre 1930, vive a Varese dove inizia, sul finire degli anni 50, la sua vita di giornalista e scrittore come corrispondente de l’Unità e redattore settimanale della federazione comunista “L’ordine nuovo” di cui successivamente diventerà redattore responsabile.
Dal 1961, e per i trent’anni successivi, lavora nella redazione de L’Unità di Milano, dove ricopre anche l’incarico di redattore capo.
In seguito collabora ed è uno dei padri fondatori di “Cuore”, il settimanale satirico di “Resistenza umana”, ideato da Michele Serra suo collaboratore.
Recentemente, oltre alla stesura del suo libro uscito nel 2006 intitolato “Avanti popolo” «lotte e delle speranze dei “lauradur” in un romanzo padano» libro che racconta, una storia scritta negli anni Sessanta del secolo scorso e tenuta chiusa nel cassetto per almeno quarant’anni. Si, tratta di racconti veri, raccolti nel paese dove l’autore è nato, Goito, nella rigogliosa pianura mantovana, dove ha trascorso gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza. Racconti “veri” di un mondo contadino d’antan, sparito come le lucciole, visti con gli occhi e l’affettuosa ironia di chi in quell’universo ha fatto in tempo a soffrire gli orrori del fascismo e della guerra, della miseria e della fame, ma anche a conoscere i turbamenti per i primi appuntamenti d’amore e a stringere amicizie che durano una vita. Un paese rosso, che soltanto alla superficie, ma con ben altri intendimenti, può somigliare a quello di Peppone e di don Camillo, con braccianti e bergamin che non piegano la schiena, che tengono chiusi nel cuore i valori e le speranze di un mondo più giusto. Uomini che non si piegano alle feroci percosse degli squadristi, che aspettano con fiducia la fine dell’odiato regime, operando nei modi possibili sotto la dittatura e poi impugnando le armi nei diciotto mesi della lotta di Liberazione. E, ancora, combattenti instancabili contro le più odiose forme dello sfruttamento, fieri di fare parte del mondo dei “lauradur”, portatori, sovente con forme di ingenuo primitivismo, di una speranza che non viene mai meno.
Una gradita sorpresa il Banali narratore soprattutto per chi pensava di conoscerlo a fondo. E’ uscito dalla sua penna uno spaccato dell’universo del “pan de furmentun e dell’acqua del fos”, del duro lavoro dall’alba al tramonto, del giaciglio spesso fatto di sole foglie di granoturco, di case senza elettricità, né acqua, né gabinetto, ma anche di travolgenti passioni e di indistruttibili legami di solidarietà, di orgoglio che discende da padri che si riconoscono nel Quarto Stato e in un socialismo nascente. Un mondo di forti tensioni emotive, di lacrime e sangue, di sofferenze ma anche di gioie e di feste collettive, che provoca il riso e il pianto, che si legge tutto di un fiato, che coinvolge e travolge dalla prima all’ultima riga. E lascia alla fine un filo di nostalgia per i valori perduti. Vicende tratte dalla realtà quotidiana, intrecciata con fatti provenienti dalla fantasia dell’autore;
Nel dicembre 2009 a Sergio, viene dedicato un largo spazio su uno dei numeri di Cuore, dove in un importante articolo, di seguito riportato, il “Tato” viene ritratto nel suo mondo lavorativo, ricco di aneddoti, di passione e di professionalità, qualità che hanno contraddistinto per tutta la vita il giornalista Goitese.
Bernadette Bernardon, una ragazza francese occupata come colf in un condominio di fronte a palazzo dell’Unità a Milano, in un cupo pomeriggio autunnale si uccise gettandosi sotto il tram 31, proprio in viale Fulvio Testi, a pochi metri dalla sede del giornale. La sventurata venne fatta a pezzi, ma nella mano destra rimasta intatta, stringeva ancora un biglietto: “Pour Serge Banali, amour de la me vie”. Era stata la disperazione per la crudele indifferenza verso le sue generose disponibilità mostrata da “Serge” a spingerla al suicidio. La notizia, inventata e lanciata da Michele Serra, con una falsa agenzia battuta direttamente sulla telescrivente, comprendeva anche una manifestazione di protesta femminista sulla strada di fronte all’Unità, e la richiesta di informazioni più dettagliate sul mio conto da parte dei cronisti degli altri giornali. “Sergio non ha nessuna colpa”, dichiararono subito parecchi colleghi, mentre gli altri aggiunsero che, se fosse stato vero, non come lui avrebbe raccontato ogni dettaglio, ciò che peraltro avveniva ogni volta che portava a termine le sue smaniose avventure erotico-sentimentali.
Pochi giorni prima un fattorino mi aveva consegnato una lettera, scritta da Michele ovviamente, in cui Bernadette Bernardon mi informava che da una “fenetre” dell’appartamento dove lavorava, mi vedeva arrivare tutti i giorni, “su tua potente voiture” (si trattava di una vecchia Skoda fumigante). Poi, utilizzando un binocolo ammirava il mio modo di camminare “très charmante” e i miei pantaloni “tuti stropiscià”. E sognava di diventare “tua femina” piena di atension per la cuisine e i pranseti francesi, e di pasion del grande leto tra le tue brasia forti e bitorsute.
La vicenda di Bernadette Bernardon è stata una delle più spassose tra i falsi, gli scherzi, le provocazioni e i tormentoni di cui sono stato vittima e complice
divertito, racconta Sergio, di un gruppo i compagni di lavoro, con in testa Michele Serra e Andrea Aloi, impegnati allora nel servizio Cultura e Spettacoli, oltre che inviati, e Massimo Cavallini, anch’egli inviato: tutte penna di valore.
Sul mio tavolo di responsabile di dipartimento Uno come era chiamato il servizio che ne unificava due, gli Interni e la Varia, trovavo quasi ogni giorno un biglietto di Massimo; “Non ricordo –scriveva- se ti ho rinnovato anche oggi il mio profondo disprezzo”. Quando partì come corrispondente per l’America Latina, con base a Cuba, mi lasciò una bellissima lettera per l’affetto e l’amicizia nei miei confronti. Ma questo non gli impedì, per oltre trent’anni, ogni volta che tornava in Italia, di spedirmi un messaggio. (e continua ogni tanto a farlo) in cui mi esprimeva tutto il suo disgusto. Sempre su quel tavolo trovavo. In buste chiuse, messaggi costruiti con i ritagli di giornale per “denunciare” che al sevizio sindacale “parlano di politica” firmato “un amico”. Oppure per sollecitare un indispensabile ed energico “giro di vite”, con una vite vera incollata con l’adesivo. E quando meno me lo aspettavo, ecco che mi comparivano davanti Michele e Andrea per una delle gag più classiche. Andrea con aria commossa, teneva in mano Michele che si trascinava sulle ginocchia e lo presentava come un povero terremotato, alluvionato e disoccupato, sofferente inoltre di una forma mostruosa e inguaribile di priapismo, rappresentato da un vistoso tubo di cartone trattenuto a stento dalla cintura dei pantaloni. Poi i due, reggendosi l’un l’altro, intonavano a squarciagola accogliendo una richiesta di massa dei redattori presenti, “Mo ben la mia Cesira” un popolare canto della bassa con espliciti risvolti pecorecci.
Intanto ero arrivato al pensionamento – racconta sempre l’amico Sergio, – e avevo accettato una collaborazione redazionale, alla quale rinunciai quando Michele Serra, che si era affermato come giornalista e scrittore sopraffino (anche di satira), mi propose di entrare a far parte di un gruppo da lui diretto per lavorare a un inserto satirico dell’Unità del lunedì che coprisse il vuoto lasciato dal Tango di Sergio Staino. “Cuore” stava prendendo forma e Michele era impegnato a preparare un progetto da sottoporre al direttore, Massimo D’Alema. “Tu – mi disse – saresti molto utile, non solo perché hai una lunga esperienza giornalistica, ma anche perché sei un uomo di partito e quindi un fattore di riequilibrio”. Fu anche per questo particolare che mi opposi , in uno dei primi numeri, al titolone di pagina “Chi se ne frega di Togliatti”. Ne ero rimasto sorpreso e turbato. Forse avevo torto, certamente non intendevo passare per una sorta di commissario politico. Ma provenivo da una militanza comunista maturata in sezione come attivista, poi in una scuola di Partito e infine a lungo, nella federazione di Varese.
Un lavoro in un PCI molto legato alla disciplina politica e ai dirigenti, in particolare ai padri fondatori.
Già da tempo all’Unità venivo indicato, affettuosamente ma anche ironicamente, come un iscritto sdraiato sulla linea. Compresi anche dopo mesi e mesi, quando Cuore criticava duramente o attaccava senza remissione il partito, qualche antico imbarazzo mi tormentava un po’. Forse aveva ragione Andrea quando presentando l’autoritratto del gruppo di Cuore su Avvenimenti, mi dedicò queste righe: “Sergio Banali, mantovano, calvo, umilissimo, autentica cariatide della carta stampata, già caporedattore dell’Unità clandestina. Ha fatto del trasformista la sua regola di vita, passando indenne attraverso le vicende talora tragicomiche della sinistra italiana. È a Cuore dalla fondazione”.
È anche per questo che il ricordo il titolone del numero zero, uscito poco prima del Natale 1989: “È tutto un magna magna”. Con un invito a pensare a Dio almeno a Natale e non solo agli sfrenati consumi.
Nel “Cuore”, costola dell’Unità figuravo tra i collaboratori con il nome di Olga Notarbartolo Bò, mentre nel “Cuore”, rivista autonoma ero il cappellano Don Domenico Tantalo. Fra i ricordi migliori resta quello di un giornale strettamente legato all’attualità. Il titolone “Hanno la faccia come il culo” venne utilizzato e numerato in varie crisi di governo: “Loro presentano le stesse soluzioni e noi facciamo lo stesso titolo”.
“Incarico a Stanlio” annunciava un altro titolo, “Ollio garantisce l’appoggio esterno”. E il sommario aggiungeva: “Dura presa di posizione dei fratelli De Rege. I Brutos entrano in clandestinità. Governo ombra dei fratelli Marx. Documento programmatico di Ridolini e Cretinetti. Clamorosa scissione di Ric e Gian. Richiamati per consultazioni anche Scaramacai e Sbirulino. Congresso straordinario degli Squallor all’ex Ansaldo. La Gegia presidente della camera. Profanata la tomba di Gianni e Pinotto”.
E sempre a proposito delle crisi di governo, ecco che in prima pagina una conclusione inevitabile: “Torna il Re!” La prima repubblica fa talmente schifo che non vale la pena farne una seconda. La monarchia sarà restaurata non appena Sua Maestà Vittorio Emanuele IV, detto affettuosamente “il Re pirla” riuscirà a mettere in moto la macchina per rimpatriare. Sospeso il voto alle donne. Maria Josè, Josè Altafini, e Josè Carioca già rientrati in Italia. Riportata la capitale a Torino.
Dalle prime pagine rifatte, magari nelle ultime ore prima della stampa, voglio ricordarne in particolare due. In occasione della morte del presidente Pertini, dopo il lutto espresso nell’occhiello, il titolo era: “È vivo Intini”, a sottolineare l’amaro destino del socialismo italiano, in cui si contrapponevano l’uscita di scena di una figura di alto profilo civile e l’imperversare del direttore dell’Avanti, attivamente molto impegnato in quei tempi a impartire lezioni e lezioncine sul PCI e su Togliatti.
L’altra prima pagina portava la scritta “Chiuso per lutto”, Quasi a cancellare la testata, per esprimere l’indignazione davanti alla strage di Tien An Men. “Bel lavoro compagno Deng” era il titolo accanto a un grande disegno di Sergio Staino in cui Bobo, il suo alterego disegnato, reggeva tra le braccia il cadavere insanguinato di un ragazzo ucciso.
Sono esempi significativi della filigrana culturale e politica di «Cuore». Dove “l’alto” e il “basso”, L’invettiva e la nota dolente, lo sberleffo e l’indignazione morale convivevano senza configgere. Tanto altro non ci sarebbe da raccontare, a partire da “Cuore Mundial” la strepitosa anticronaca dei Mondiali di Italia 90, ospitata quotidianamente sull’Unità e dove rifece capolino Massimo Cavallini nelle vesti di un giornalista alpino, Ciro G. Baravalle, eretto a simbolo del trasformismo servile dei cronisti sportivi, pronti a glorificare e a demolire a seconda del risultato.
Insomma «Cuore» è stata una “messinscena” incredibile impastata di talento e di amicizia. Mi piace pensare e dire che accanto a quei ragazzi “Io c’ero!”.
Queste sono le parole raccontate con leggera malinconia da Sergio, “Tato” Banali, uomo di grande umiltà e semplicità, che ricorda quei momenti con grande entusiasmo, momenti per lui indimenticabili, che l’hanno in qualche modo segnato e che hanno stampato sul suo volto quel sorriso di ironia che gli proviene dal «Cuore».
Sebastiano Guerreschi