Ermete Cauzzi, classe 1920, agricoltore di Goito: per i nazisti tedeschi era diventato un numero, il prigioniero IMI n° 37234. Non prigioniero di guerra, una definizione troppo garantista secondo loro, ma un internato militare italiano (IMI), una definizione coniata proprio per evitare ogni controllo esterno, compreso quello della Croce Rossa Internazionale, sui moltissimi prigionieri, di ogni nazionalità, catturati dai tedeschi durante l’ultimo conflitto mondiale, fra i quali circa 800.000 italiani.
Ermete, che era stato chiamato alla guerra nel Marzo 1940, irreggimentato nel 14° Guardia Frontiera, gli alpini senza piuma sul cappello, dopo essere stato a Bressanone, a Vipiteno, a San Pietro del Carso, a Trezi a Terzato in Slovenia, l’8 settembre 1943, giornata in cui la radio annunciò l’armistizio dell’Italia con gli ex-nemici, si trovava a Cerniluk in Croazia: ironia della sorte era in attesa di una firma sulla licenza per tornare un po’ a casa, una firma che non arriverà più.
Arrivarono invece i tedeschi: nello sbandamento e nella confusione generale Ermete rimase bloccato a Fiume assieme a tutti gli altri soldati italiani, poi preso in consegna dalle SS e portato in nave a Venezia e da lì in treno fino al campo di prigionia di Furstenberg, vicino a Berlino.
I nazisti chiedono insistentemente ai prigionieri di collaborare: Ermete Cauzzi (cognome che viene storpiato dallo scribano nazista e registrato come Caucci) oppone, come tutti gli altri, un netto rifiuto e viene spedito nel Lager per deportati politici denominato “Laura”, nome di copertura di uno dei tanti lager sparsi in tutta la Germania. “Laura”, che si trovava in Turingia, nonostante il nome così gentile, era uno dei campi di lavoro peggiori, più duri: in pochi mesi i prigionieri si ridussero a meno della metà, gli altri erano morti per fame, stenti, bastonate, uccisioni senza pietà da parte degli aguzzini e malattie, fra le quali predominava la tubercolosi.
Dopo poche settimane di durissimo lavoro, assieme agli altri prigionieri polacchi, francesi e russi, lavoro che consisteva nello scavare gallerie, tramite l’esplosione di mine, nelle quali sarebbero poi state prodotte le micidiali bombe tedesche V1 e V2, Ermete si sente male e viene visitato da due studenti di medicina: per sua fortuna uno dei due, Uber, lo prende in simpatia e lo porta a casa sua per curarlo, assieme alla moglie, lei per fortuna già laureata in medicina. Viene diagnosticata un’appendicite, poi compare anche la peritonite, nel gennaio 1944 viene ricoverato all’ospedale di Saalfeld, a metà febbraio riportato nell’infermeria del campo “Laura” è costretto a ritornare al lavoro nonstante il suo stato di forze deperimento generale: il cibo tra l’altro era scarsissimo una brodaglia di rape, con qualche buccia di patata, due volte al giorno, qualche pezzo di pane con un po’ di margarina ogni tanto, non per nulla era arrivato a pesare soli 48 Kg lui che, prima di quella tragica esperienza, ne pesava quasi il doppio.
Nel giugno 1944 viene trasferito, con altri 60 italiani, nel campo di concentramento di Buchenwald, nei pressi di Weimar, ed è li che la prima volta gli danno in donazione quello che lui chiama “il pigiama”, la divisa a righe dei prigionieri, che va a sostituire finalmente il consunto e lurido vestito militare italiano. Ad Ermete viene da piangere
soprattutto quando lo privano del suo cappello da alpino di frontiera, senza penna: non lo ritroverà più.
Lo portano a lavorare in cava di pietre, poi nel famigerato campo di Dora-Mittelbau, “Dora-lamort” come lo hanno definito i prigionieri francesi, dove pure si scavano gallerie nella collina di Kohnstein per piazzarvi i laboratori di costruzione dei pezzi delle V1 e V2.
Altro trasferimento, altro campo di lavoro, quello di Wieda, dove Ermete si mette a fare, per la prima volta in vita sua, lavori di falegname, ma anche tratti di ferrovia o scaricare carbone dai vagoni ferroviari, e dove continua a mangiare male e pochissimo, anche perché la situazione per il Terzo Reich è ormai drammatica, le sorti della guerra ormai segnate per Hitler e Mussolini. Gli alleati e i russi stanno ormai schiacciando la Germania il una morsa fatale: i nazisti cercano di distruggere ogni testimonianza dei lager, ai primi di aprile del 45 Ermete e gli altri vengono fatti uscire dal campo e marciare interrottamente per giorni, ad ogni lager che incontrano sulla loro strada le file si ingrossano, mentre i morsi della fame diventano insopportabili: si mangia di tutto, l’erba dei campi, le ortiche dei fossi, qualcuno cade e viene fucilato ed abbandonato dalle SS come un cane sul ciglio della strada. Per la prima volta Ermete vede di sfuggita qualcuno della Croce Rossa, ma la marcia prosegue inesorabile: viene caricato su un treno, stipato con altre 90 persone in vagone bestiame. Nel corso di un bombardamento aereo riesce a saltare giù dal treno ma viene quasi subito ripreso dai tedeschi che gli fanno attraversare un fiume sconosciuto su piroscafo. Dopo un breve riposo notturno in un bosco, ai bordi della strada, Ermete non riesce a rialzarsi viene abbandonato; o forse dimenticato: si trascina con la forza della disperazione, mangiando un pezzo di carne cruda strappata ad un cavallo trovato morto sulla strada, mitragliato; alla fine (ormai la guerra era veramente finita) trova qualcuno che lo soccorre, gli da qualcosa da mangiare, lo tosa a zero, lo lava e lo veste da borghese. Ma deve ancora fuggire, deve soprattutto sfuggire alle grinfie dei militari tedeschi in ritirarta; si rifugia in una fattoria, dove si mette a mungere una mucca, un mestire che non ha mai dimenticato, e ne beve avidamente il latte.
Un soldato russo gli chiede: Di dove sei? – Italiano – Di Badoglio? – Certo, risponde Ermete, e si guadagna così una bella fetta di pancetta affumicata, ma deve riprendere il cammino verso casa, anche se in realtà si sta dirigendo, senza saperlo, da tutt’altra parte, verso il nord della Germania.
Trova una fattoria abbandonata, con i suoi compagni di avventura uccide un maiale e ne divora voracemente ogni parte, greppole comprese: qualche giorno dopo divora in men che non si dica una frittata di ben 15 uova, riprende le forze e continua il suo viaggio fino a giungere in una cittadina tedesca, dove dorme in una caserma. Ma non si è ancora del tutto ristabilito, viene mandato all’ospedale di Schwerin prima e in quello di Amburgo, dove il 31 maggio festeggia i suoi 25 anni e la fine della guerra.
Finalmente il 25 luglio viene messo sul treno per l’Italia, nella fermata di Innsbruck ritrova il sottotente Tegani: da li partano due convogli, uno per il sud e uno per il nord, che arriva fino a Pescantina di Verona.
A Pescantina Ermete sale sul camion per Mantova, ma dopo Mozzecane, al bivio per Roverbella chiede di scendere, e si avvicina a grandi passi verso casa sua, alla corte Dossi, di là dal fiume Mincio che attraversa sulla barca dei familiari. Pieno di emozione e di gioia rivede dopo più di 5 anni i genitori ai quali era riuscito a spedire una sola cartolina, anzi metà perche l’altra metà gli e avevano rimandata come ricevuta; rivede i quattro fratelli e l’unica sorella rimasta: l’altra Santina, gli raccontano tra le lacrime era già morta durante la sua lontananza. È un’emozione forte Ermete l’ha riprovata recentemente: accompagnato dalla figlia Gianna, dal genero Kevin, dal nipote Enrico e dal cugino Bruno è ritornato in quei luoghi è ritornato nel lager “Laura”, dove oggi la torretta di guardia, il campo, la collinetta con le gallerie sono diventate un museo. In quel museo Ermete ha snocciolato le sue memorie, ancora così vive e presenti e precise, ad uno scrittore che sta raccogliendo testimonianze e documenti sulla vita del campo.
Anche Buchenwald oggi è un museo, realizzato in alcune ex-baracche (block) di prigionia: anche lì sono raccolti alcuni documenti importanti sulla vita dei lager quelli che i nazisti non sono riusciti a distruggere, e fra questi l’elenco degli italiani “schiavi di Hitler”, elenco in cui compare al n° 37234 Ermete Cauzzi.
Nel 50° anniversario della liberazione anche il campo di concentramento di Dora-Mittelbau, vicino a Nordhausen, facente parte del commando esterno di Buchenwald, è divenuto un museo a ricordo delle 60.000 persone che vi furono deportate per scavare le gallerie da dove uscirono le V2 progettate da Wernher Von Braun: più di 20.000 di quegli sventurati non riuscirono a sopravvivere all’inferno di “Dora-lamort”.
Ermete Cauzzi, uno dei sopravvissuti, non può e non vuole dimenticare, vuole anzi ricordare e raccontare a tutti quella tragedia, perche non si dimentichi, perché si sappia cos’è successo, perché lo sappiano anche i giovani, anche il nipote Enrico che ha voluto portare con sè sui luoghi della prigionia.
Ermete muore all’età di 84 anni il 24 gennaio 2005 nel suo paese natale: Goito.
Marina Cartapati
(tratto da Goito Oggi del novembre 1999)