2 APRILE 1945 : BATTAGLIA NEI CIELI DI GOITO
“Ten. Pilota – dott. Aristide Sarti – caduto per la sua patria – il 2 aprile 1945”: sono le parole scritte in stampatello su un monumento in granito, alto più di due metri, che si trova nascosto in mezzo ai canneti di una piccola palude nel fondo denominato Baronina in territorio di Goito. Un tempo era nel bel mezzo di una piccola isoletta del laghetto che era rimasto a testimonianza delle escavazioni di ghiaia degli anni ’30, successivamente in parte colmato per ricavarne uno stradello che accede a quella lapide. Il monumento era stato voluto e finanziato dai genitori di Aristide, il papa’ Giuseppe Primo e la mamma Angelina, i quali, subito dopo la fine della guerra, erano giunti a Goito per vedere dov’era andato a morire il figlio ed avevano deciso di lasciare quel che restava del loro secondogenito e del suo aereo sepolto sotto quella terra fangosa e cedevole, una specie di sabbie mobili, cosa che ha poi alimentato voci e leggende su quella battaglia aerea del 2 aprile 1945, una delle ultime battaglie aeree nei cieli italiani durante la seconda guerra mondiale, fatale per il giovane Sarti, morto per la “sua” patria.
Quel 2 aprile di sessantasette anni fa, lunedi di Pasqua, dal campo di aviazione di Pisa decollarono sedici Thunderbolt P-47 del 347° Fighter Squadron dell’Aeronautica americana USAAF, con tre serbatoi supplementari colmi di carburante, diretti a nord, raggiunti poi sulla verticale dell’ isola della Gorgona da 36 B-25, tutti con l’obiettivo di andare a bombardare un ponte ferroviario a Ora nell’Alto Adige: a loro si aggiungono altri diciotto B-25 diretti invece a San Michele per bombardare un ponte sul fiume Adige. Uno squadrone quindi di 54 bimotori e 16 aerei da caccia, tutti diretti a nord-est: poco dopo decollano anche otto P-47 del 346° Fighter Squadron con due bombe da 500 libbre sotto le ali da sganciare sulla ferrovia del Brennero.
Alle 13,45 da Aviano viene dato l’ordine di decollo ai piloti dell’Aeranautica Nazionale Reppublicana di Salò: partono diciotto Messerschmitt Bf 109, ai quali si aggiungono altri nove aerei decollati da Osoppo in Friuli. Siamo ormai alla fine della guerra, i mezzi italiani, quasi tutti di produzione tedesca, sono messi male, stremati, poco efficienti data la scarsa possibilità di manutenzione e spesso senza ricambi a disposizione: due apparecchi devono staccarsi subito dalla formazione per avarie meccaniche e atterrare sul campo di Aviano. I rimanenti venticinque Messerschmitt, tra cui quello del tenente Aristide Sarti, puntano il muso verso ovest, decisi a scontrasi con quella grossa formazione di aerei da bombardamento diretti verso il Brennero e scortati da ben 41 aerei da caccia, più del doppio di quelli italiani.
Sarti si trova sulla destra della formazione, nella quinta Squadriglia comandata dal capitano Bellagambi, a cui si è aggiunto in coda il sergente maggiore Carlo Cavagliano. Dalle testimonianze sembra che tra gli aerei italiani, in testa e all’estrema destra, ci fossero anche tre intrusi, quasi sicuramente aerei tedeschi non meglio identificati, un mistero tuttora insoluto.
Molto preciso è il rapporto del 347° Fighter Squadron: “ . . . alle 14,20, tre miglia ad est di Ghedi, un gruppo di 16 Me 109 furono avvistati ad ore 3 provenienti da est circa a quota 4.500 m, tra le due formazioni di bombardieri . . “ Una trappola mortale per gli aerei italiani, per di più all’ aereo del comandante Miani si blocca l’elica, prende quindi il comando il capitano Bellagambi ed ha inizio la battaglia sui cieli tra Ghedi e Goito. Il combattimento si suddivide in una serie di duelli a coppie. Seguiamo in particolare quello che vede soccombere il Messerschmitt di Sarti. Ne parla in prima persona proprio il suo avversario diretto, il luogotenente americano Sulzbach della formazione Minefield Yellow, il quale sul suo P-47 piomba in coda a Sarti e Cavagliano: “ . . mi trovai dietro a due Me. 109 a circa 300 metri di distanza. Mentre uno virò seccamente e scomparve (quello di Cavagliano), cominciai a sparare sul secondo (quello di Sarti) con 15° di deflezione quando questo comincio’ a virare a destra e contemporaneamente vidi molti colpi arrivare a segno sull’attacco dell’ala destra e la fusoliera. Gli sparai un’ altra raffica andando ancora a segno nella zona dell’abitacolo mentre lo seguivo in picchiata, ed abbandonandolo quando avvistai un altro Me. 109 sotto di me . .” Dopo di lui si avventa sul povero Sarti il maggiore Gilbert: “. . . mentre il P-47 inseguitore (che più tardi seppi essere quello del lt. Sulzbach) interrompe l’inseguimento, io continuo a picchiare dietro al Me. 109, osservandolo tentare un rollio di alettone verso sinistra senza tuttavia richiamare, per poi schiantarsi al suolo circa dodici miglia a sud-ovest di Villafranca . . “
Su quel Messerschmitt 109 “8 bianco” vi era proprio Aristide Sarti, che muore così a soli ventotto anni schiantandosi sul suolo goitese, nelle sabbie mobili di corte Baronina tra Goito e Cerlongo.
Sulla vicenda di Sarti sono sorte da subito alcune leggende: la prima lo ritrae come un pilota kamikaze, “un fascista di sinistra e fervente anticapitalista”, come l’ha descritto Mario Baudino nel suo libro “Voci di guerra 1940-1945”, un giovane fascista che era stato nominato dopo l’8 settembre 1943 reggente del Fascio di Bologna, un’esperienza politica breve e tormentata, dalla quale si staccherà dopo pochi mesi per laurearsi in fretta e furia in Economia e Commercio e ritornare alla sua passione giovanile, il volo, arruolandosi come volontario nell’Aeronautica Nazionale Repubblicana. Deluso dalla gestione del nuovo fascismo e dall’andamento ormai segnato della guerra, Aristide non si era comunque sottratto al suo senso del dovere, il dovere di servire la “sua” patria in un corpo, quello dell’Aeronautica militare appunto, che gli permetteva anche di evitare lo scontro diretto con i “fratelli” italiani, di evitare gli orrori della guerra civile.
Non crede alla teoria del nipote kamikaze neppure la zia Angela, che vive tuttora in quella casa di Bologna dov’era nato Aristide il 24 febbraio del 1917: d’altra parte la testimonianza del pilota statunitense Sulzbach parla chiaramente di raffiche che colpirono l’abitacolo, quindi assai probabilmente lo stesso pilota bolognese il cui aereo precipitò senza alcun controllo. Nello stesso senso va la testimonianza diretta del goitese Selvino Stancari: lui quel giorno, poco più che quindicenne, vide aerei sfrecciargli sulla testa, vide fiamme e fuoco nel cielo primaverile, vide cadere a piombo quell’aereo e disintegrarsi al suolo. Ed ebbe modo di vedere anche l’elica tutta perforata dai proiettili, un reperto che mamma Angelina volle portarsi a casa a ricordo dello sfortunato figliolo.
Le autorità militari tedesche ripulirono in breve tempo l’area e il laghetto dai rottami dell’aereo, del povero pilota non rimaneva quasi nulla: più tardi qualcuno raccolse un orecchio, poi un dito, il resto è sprofondato nelle sabbie mobili di quella ex cava e lì decisero di lasciarlo i genitori accorsi subito dopo la fine della guerra. Cartapati Enzo
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