PREMESSA
Desideriamo proporre un’interessantissima “Relazione” sulla vita goitese nei primi decenni dell’Ottocento, per comprendere meglio se le nostre attuali tradizioni hanno radici lontane nei tempi oppure sono il frutto di recenti “mode”.
Per capire pienamente il perché e lo scopo di tale Relazione, dobbiamo storicizzare il documento.
Siamo nel 1811. Il territorio mantovano, dopo la dominazione di Maria Teresa d’Austria e di Giuseppe II, dal 1797 è in mano ai Francesi e lo stesso Napoleone visita Mantova nel giugno 1805. Nel 1811 il governo napoleonico promuove un’inchiesta ufficiale sulle abitudini popolari nel Regno d’Italia, allo scopo di conoscere la realtà economico-sociale del nuovo dominio italiano alla luce dei nuovi ideali fioriti dalla Rivoluzione francese.
Una circolare-questionario del 30 giugno è inviata ai prefetti dei vari dipartimenti del Regno, i quali, a loro volta, la trasmettono ai parroci ed ai podestà locali, per avere una risposta qualificata e documentata da inviare successivamente al governo centrale di Parigi.
L’inchiesta, dunque, è spedita dal prefetto Tamassia del Dipartimento del Mincio, a cui Mantova appartiene, con ordinanza n° 9248 in data 29 giugno 1811 ai parroci e podestà delle varie circoscrizioni mantovane, quindi anche al parroco di Goito, al tempo don Baldassarre Sartorio.
Ci preme perciò sottolineare che ci troviamo di fronte ad un ordine importante, la cui esecuzione non solo è doverosa, ma occorre impegnarsi per una realizzazione seria, veritiera, rispettosa, puntuale. Gli argomenti richiesti da relazionare sono tre: le usanze nei vari periodi dell’anno e della vita, i lavori annuali svolti, infine il dialetto parlato.
Leggiamo ora integralmente la Relazione scritta dal priore goitese, preceduta da una lettera di presentazione, per proporre successivamente le nostre considerazioni.
IL DOCUMENTO
Regno d’Italia
Goito 28 Agosto 1811
Il Parroco Locale
Al Sig. Cavalliere Prefetto del Dipartimento del Mincio
Invitato io dalla di Lei degnazione con sua lettera pregiatissima dei 29 Luglio prossimo passato N° 9248 a ragguagliarla intorno agl’articoli contenuti nel foglio ad essa annesso rispettosamente Le rassegno la relativa risposta, che qui a parte Le compiego, fornita della notizia proporzionata alla mia capacità, pregandola a voler compatirmi ove avessi mancato, o non avessi abbastanza inteso. Io certo ho usato tutta l’opera per soddisfare alle superiori ricerche; come egualmente ad essa rispondo con tutta sincerità. Restami da significarle, siccome ella m’ingiugne, che il mio riscontro abbraccia questo Cantone di Goito, esclusi però i paesi così detti del Veronese, cioè Monzambano, Ponti e Peschiera, perchè di essi poco io pratico ed informato. Quindi mi dò l’onore di professarle la perfetta mia stima, rispetto ed obbedienza.
Baldassarre Sartorio Parroco di Goito
1 — Sulle diverse costumanze, ed anche pregiudizi e superstizioni, che si mantengono nelle Campagne in occasione di Nascite, di Nozze, di Morti e di Tumulazioni, come pure in tempo di feste, per esempio al principiare ed al finire dell’anno, al Natale, al Carnovale, nella Quadragesima, nella Settimana Santa e nella Pasqua.
Rapporto alla nascita, morti e tumulazioni non vi è cosa da rimarcare in questo Circondario, nulla costumandosi qui di particolare, nè di superstizioso, a riguardo ai Defunti essendosi ormaj tutti adattati a metter nella Cassa i loro Morti, ed in essa chiusi tradurli alla chiesa ed al seppellimento.
Parlando poi delle Nozze, altro non si pratica, che accompagnamento copioso della sposa alla chiesa, suoni in seguito, danze, strepito e buon trattamento di tavola mattina e sera ai Parenti ed amici invitati, ed alla notte poi anche Festa di Ballo.
Circa poi alle sacre Festività, cioè alle Feste dell’anno parmi non dover omettere di far conoscere l’abuso grande della Ostaria, in cui certi Padri di famiglia consumano in essi giorni, quanto fra la settimana è necessario al sostentamento della stessa loro Famiglia, nonchè la perfetta oziosità, in cui non pochi passano li detti giorni festivi, senza neppur venire ad intendere dalla voce della Religione i proprj doveri. Quindi riesce osservabile, che al principio ed al finire dell’anno eravi l’uso di tirar dietro all’anno, come suol dirsi, delle archibugiate, ma che questo è cessato colla total proibizione delle armi, e che non vi è rimasto, se non il semplice costume di fare dei Fuochi con delle cataste o mucchj di legna, nominate Borielli, nella sera della Epifania, detta volgarmente Pasquetta, saltandovi, e cantandovi d’attorno, e mandando voci e grida clamorose di giubilo, come pure di portare in tale occasione alle Case una Stella di carta trasparente con entro le figure dei Re Magi, cantando una canzone allusiva, e raccogliendo triviali doni dalle case stesse.
Quanto al Carnevale non si soglion praticare, se non le comuni allegrie di Maschere e Mascherata, di Danze e Feste di Ballo, colla debita licenza, ed una cucina già migliore del restante dell’anno. Bensì poi nei paesi più grossi, come qui in Goito, nel Venerdì ultimo di Carnevale, detto Gnoccolaro, si suol far quasi sempre una solenne mangiata di Gnocchi preparati e cotti a bella posta in sulla piazza, la quale però, attesa la troppa golosità de’ mangiatori, è costata talvolta la vita a qualchuno di essi.
Riguardo alla Quaresima, Settimana Santa, e Pasqua non mi consta, che vi sia cosa in queste parti da notare, non praticandosi Processioni notturne, nè sacre rappresentazioni per la strada, nè verun altra particolare costumanza. Solo in Quaresima si pratica qualche volta la pubblica allegria di rassegare la vecchja, giusta la volgare espressione, su la piazza; il che è un affare di qualch’ora e nulla più. In fine poi sul generale parlando intorno a questo primo articolo, i pregiudizij si sono diminuiti al presente, e le superstizioni in confronto del passato. Vi rimane però in molte Famiglie rurali, più o meno, la opinione delle streghe e stregherie, specialmente in occasione di malattia o morti di Bambini, che porta talvolta i Genitori a degl’accessi, com’è accaduto. Vi rimangon dei modi superstiziosi, che alcune volte dalla gente rozza si usano contro le Febbri, od altri malori. Vi rimane del trasporto, e della irregolarità verso le Immagini, certune delle quali, non ostanti le debite istruzioni di Parrochi, riguardate vengono, e credute dal volgo da sè sola, e per se stessa effettivamente miracolose. E vi rimane anche in alcuni Luoghi dell’eccesso per la Divozione a Morti, come per esempio quei sfarzosi Tridui nel Carnevale, in cui si spende anche in sola pompa inutile ai Defonti, quanto sarebbe opportuno fra l’anno ai bisogni del Culto, ed al decoro della Chiesa e degl’Altari. Ed ecco quanto mi sono stimato in dovere di rispondere al primo quesito.
2 — Sulle pratiche, che si tengono nelle diverse stagioni anche per ciò che riguarda le opere agrarie, e nelle dimostrazioni di allegrezza, e se vi sono canzoni così dette nazionali, ed altri componimenti simili.
Credo qui opportuno il far presente, come nella stagione d’Inverno non pochi de’ Contadini, che non han da lavorare, o che per effetto della stagione sono impediti dal lavorare alla campagna, si abbandonano all’ozio nella stalla, o all’andar mendicando qua e là, e che però sarebbe pur desiderabile, che in tale stagione anche gli uomini si addestrassero al filare nella stalla, e così utilmente si occupassero. Ben è vero, che il Contadino in questi Luoghi si fa beffe di tal mestiere; ma come si è potuto introdurre altrove, così non è da disperarsi, che anche in queste parti introdur si potesse a poco a poco, scarseggiando specialmente il Raccolto, come in questo presente, e nel prossimo scorso anno. Ed appunto quanto al tempo del Raccolto della Campagna, parmi non dover prescindere dal rammentare quella pratica, che generalmente si usa in tempo dei Raccolti, cioè dalla stagione della Primavera a quella dell’avanzato Autunno di un continuo incessante batter di tutte le Campane in occasione dei frequenti Temporali, suono strepitoso preteso scrupolosamente dai Contadini, e da essi riputato come mezzo necessario ed indispensabile a respingere e dissipare i temporali medesimi; e guai ai Campanari a Torregiani, se mancano di prontezza e di assiduità, o se il Parroco fa qualche parola di modificazione. Nel che sembrerebbe convenire una congrua moderazione.
Quanto poi alle dimostrazioni di allegrezza, fuori dalle predette, e fuori di quelle straordinarie, che vengono superiormente prescritte, e nelle quali questo Paese si è sempre singolarmente distinto, io altro non ne so assegnare, se non quella, che si costuman quivi da’ Contadini in occasione del finir di mietere, di portare sul granaio il Raccolto, di vindemia, e simili incontri, in cui la gente di Campagna si trastulla col suonare, cantare, saltare e danzare. Delle canzoni poi così dette nazionali ne sussiste ancora qualch’una, poichè queste, come le comuni Canzoni, a vicenda si cambiano di mano in mano. Quello, che più si costuma, è di cantare delle strofe vaghe ed interrotte dietro alle suonate di una Cetra, o Violino, o Piffaro, che si chiaman Maitinata, e le quali si cantavan anche di notte alle finestre delle amanti. E questo è ciò, che mi accade di rispondere intorno alle ricerche del secondo articolo.
3 — Sui caratteri particolari, e modi che distinguono i dialetti degli abitanti i diversi Comuni di codesto Dipartimento.
Or quanto al terzo. Il dialetto di questo paese di Goito si avvicina a quello della nostra Città di Mantova, non così però quello del restante di questo Comune, il quale è più corrotto di sua natura. Il dialetto del Comune di Rodigo partecipa di quello degl’abitanti verso il fiume Olio. Il dialetto poi del Comune della Volta partecipa di quello del Bresciano, e così progressivamente verso le Colline di Cavriana e di Solferino, ed è sensibile il divario del parlar della Volta dal parlar qui di Goito, convergendosi ivi usualmente le lettere C. D. T. in “ch”. Ond’è, che il dialetto men rozzo, e più proprio è questo di Goito; come anche rispettivamente sembrami più dolce e più cortese qui il tratto degl’abitanti, in generale parlando. Che è ciò, che mi conveniva di dire rapporto al terzo articolo.
Questo è quanto.
Baldassarre Sartorio, Parroco di Goito
CONSIDERAZIONI
La Relazione è sufficientemente chiara ed eloquente, per cui sarebbe superfluo un ulteriore commento, ma riteniamo interessante soffermarci su di essa, per analizzare, leggere “tra le righe” e dedurre anche ciò che è velato e traspare da quanto è espressamente detto o no.
Una prima considerazione va fatta sulla lingua usata da don Sartorio, logicamente propria del suo tempo, cioè del primo Ottocento, con termini e grafia un po’ diversi dall’italiano attuale, perchè si sa che anche la lingua “usata” muta col passar del tempo.
Procediamo con ordine, iniziando dalla lettera d’accompagnamento della Relazione.
I convenevoli di rito, propri del tempo, con cui si apre la lettera denotano rispetto, ossequio e sudditanza nei riguardi del Prefetto di Mantova, cosa che accade anche oggigiorno, utilizzando termini, come ad esempio “Eccellenza”.
Molto interessante e significativa è la dichiarazione di diligenza, serietà e sincerità con cui don Sartorio ha steso la Relazione, espressa con le frasi “Io certo ho usata tutta l’opera per soddisfare alle superiori ricerche; come egualmente ad essa rispondo con tutta sincerità”. Dunque, abbiamo tra le mani una descrizione che possiede tutti i crismi dell’ufficialità, per il destinatario cui è rivolta, di conseguenza è bene attribuire ad essa sincerità e veridicità. Inoltre non sembra una semplice forma di cortesia e di riverenza l’espressione “… notizia proporzionata alla mia capacità, pregandola a voler compatirmi ove avessi mancato o non avessi abbastanza inteso”, perchè se consideriamo attentamente l’oggetto dell’indagine, non ci stupiamo che un parroco di campagna si possa essere trovato a disagio con tematiche non propriamente ecclesiastiche, ma di natura socio-culturali ed etnologiche. Comprendiamo benissimo che don Baldassarre abbia pensato di non aver “abbastanza inteso” il significato della strana richiesta del Prefetto di dover relazionare su “costumanze”, lavori agricoli durante l’anno e persino caratteristiche linguistiche del dialetto locale; dobbiamo quindi giustificare il ricorso alla valenza religiosa di alcune osservazioni, perchè era questa la competenza specifica e provata dell’estensore, anche se era da aspettarsi da un parroco un minimo di bagaglio culturale che permettesse di relazionare sugli argomenti richiesti.
Un’altra notizia interessante riguarda la zona oggetto della Relazione: ci aspetteremmo fosse il territorio comunale goitese, invece scopriamo che il “Cantone di Goito” oggetto d’indagine si estende sino ai confini del Veronese e più precisamente Monzambano, Ponti e Peschiera; sono quindi compresi i territori di Rodigo, Volta, Cavriana e Solferino. Un’estensione vasta e ricca di sfumature negli argomenti da relazionare, ed è comprensibile che il 65enne parroco abbia manifestato esplicitamente la sua incapacità a voler estendere oltre il suo campo d’azione, “perchè di essi poco io pratico ed informato”. Sinceramente stupisce l’ardire di don Sartorio di voler esporre descrizioni etnografiche di ambienti, alcuni dei quali distanti da Goito, di cui non poteva avere una quotidiana conoscenza, considerate la difficoltà di spostamento e la lentezza dei mezzi di quei tempi; dunque pensiamo più verosimilmente che il territorio, che fa da sfondo alla Relazione, sia soprattutto, se non esclusivamente, quello goitese, che il parroco conosceva senz’altro benissimo, infatti reggeva la parrocchia da vent’anni. Era stato nominato parroco il 21 aprile 1790, all’età di 44 anni, aveva retto sino ad allora la parrocchia di Campitello per 15 anni e precedentemente aveva ricoperto incarichi importanti, come cappellano in Cattedrale a Mantova per 4 anni e Vice Prefetto del Seminario Vescovile per 2. Dunque, uomo preparato e con esperienza pastorale, descritto sui documenti “ornato di onesti e retti costumi, intelligente e dotato di ogni dono di Parroco”. E’ doveroso accennare a questo conciso profilo di don Sartorio, per poter valutare pienamente il suo scritto, degno, quindi, di onesta verità.
Consideriamo ora i tre punti della Relazione.
Nel primo sono affrontati i tipici argomenti etnologici delle tradizioni popolari nei vari periodi dell’anno.
Circa il metodo di tumulazione dei cadaveri in casse può sembrare oggi una precisazione ovvia e scontata, ma a quei tempi non lo era per niente, infatti il diligente parroco precisa: “essendosi ormaj tutti adattati a metter nella Cassa i loro Morti”, cioè era diventata ormai una norma diffusa e condivisa. Si sa infatti che nel secolo precedente normalmente il defunto veniva inumato avvolto semplicemente in un lenzuolo, soprattutto se si trattava di una persona povera. Una prova di tale abitudine è offerta dall’Avviso del Delegato di Polizia Generale Conte Porro, datato Mantova 5 aprile 1805, in cui si afferma esplicitamente: “È invalso l’abuso in questa, ed altre Comuni del Dipartimento di esporre i cadaveri col volto scoperto alla porta delle abitazioni, non che di portarli in tal guisa alle Chiese, e far loro le esequie. Ciò è manifestamente contrario al Decreto governativo del 21 aprile 1787… In conseguenza si richiama la più severa esecuzione di quanto in quello è prescritto, e s’invitano le Autorità politiche del Dipartimento a tenere man forte, onde non vi si contravenga, denunciando i trasgressori, contro i quali si procederà rigorosamente”.
Volendo approfondire quest’argomento, si potrebbe leggere la Notificazione emanata a Mantova dal Conte Giambattista Gherardo D’Arco, Regio Intendente Politico Provinciale, con la quale vengono rese note ed imposte le nuove norme contenute nel sopra citato Decreto Governativo del 21 aprile 1787: “Essendo espressa mente del Regio Imperiale Consiglio di Governo, spiegata con suo venerato Decreto de’ 21 dello scorso Aprile, che non si debba permettersi per l’avvenire la pratica in passato osservata di fare i Funerali, e le Esequie alli Cadaveri scoperti, la Regia Intendenza Politico-provinciale, in esecuzione del suddetto Superior Ordine, deduce a pubblica notizia, che dal giorno del presente Avviso in avanti viene proibito a chiunque di fare funebri funzioni alli Cadaveri scoperti, ed ordina, che mentre si faranno li Funerali siano li Cadaveri rinchiusi in Casse. Qualora poi le circostanze de’ Dolenti non permettano di fare la corrispondente spesa, o che non vi sia Cassa appartenente alla Parrocchia, o destinata ad uso comune de’ Poveri, dovrà coprirsi il volto de’ Cadaveri. Nel caso poi, che si trattasse di qualche morto per malattia attaccaticcia, o producente una facile putrefazione, o diformazione straordinaria de’ Cadaveri, in tal caso le Esequie si faranno senza la presenza del Cadavere, al quale si dovrà dare sepoltura subito passate le ore prescritte da’ Regolamenti. Dovendosi ognuno uniformare a questa provvida disposizione, si avverte di non mancare all’esatta osservanza, mentre in caso di disubbidienza si procederà rigorosamente contro li Trasgressori anche col braccio forte. Dalla Regia Intendenza Politico-Provinciale di Mantova il primo Maggio 1787”.
Dunque, risale a tale anno della dominazione austriaca sul Mantovano la “nuova” normativa igienico-sanitaria sulla tumulazione dei cadaveri ed a distanza di 24 anni essa è completamente applicata e rispettata, come testimonia la Relazione di don Sartorio. Il fatto poi della presenza della cassa “comune” da utilizzare per i poveri fa comprendere che il cadavere, giunto al cimitero, veniva tolto da essa e deposto nella terra avvolto in un telo. Ma lasciamo ora quest’argomento triste, pur sempre indice di civiltà e di cultura di un popolo, per passare a considerare argomenti più allegri.
Per quanto riguarda i festeggiamenti matrimoniali viene riferito dalla Relazione un modello piuttosto altolocato, deducibile dalla sontuosità dell’apparato: “accompagnamento copioso della sposa”, “buon trattamento di tavola mattina e sera”, “ed alla notte poi anche Festa di Ballo”. Si sa invece che per i meno abbienti la cerimonia, semplice ed essenziale, si concludeva senza ricchi pranzi ed i novelli sposi, di ritorno dalla chiesa, riprendevano subito le loro normali attività lavorative di ogni giorno. Anche allora, come oggi, la disponibilità finanziaria condizionava i momenti importanti della vita della persona, i quali erano perciò utilizzati per far sfoggio del proprio stato sociale. La citazione delle Feste e Festività dell’anno sono occasione a don Sartorio per lanciare strali contro un luogo molto discusso: l'”Ostaria”, considerato un ambiente di perdizione e di spreco, che sottrae denaro alle famiglie e presenze in chiesa durante i sacri riti. Lamentela comprensibilissima, visto che proviene dal … pulpito. Sulle tradizioni goitesi d’inizio Ottocento troviamo già documentate le “archibugiate” (oggi diremmo gli spari di fucile) nella notte dell’ultimo giorno dell’anno, i “Borielli” dell’Epifania (detta allora “Pasquetta”) ed anche la “Santa Notte dell’Oriente”, praticata sino ai primi decenni del Novecento, consistente in visite da parte di giovani alle case della gente con un piccolo Presepe per cantare una canzone natalizia, porgere gli auguri ed avere come ricompensa qualche dolce o doni in natura, detti da don Baldassarre “triviali”, nel senso di profani, in contrasto con la sacralità della processione e delle immagini della Natività. Procedendo col carnevale, ecco incontrare anche a quei tempi le “Maschere” e la sfilata “Mascherata” e la grande abbuffata di gnocchi nel venerdì “Gnoccolaro”, oggi scomparsa, ma che si pratica in certe zone del territorio veronese. Non c’è traccia di manifestazioni come “l’albero della cuccagna” o il taglio della testa del tacchino, mentre il “taglio della vecchia” in piazza viene descritto come “un affare di qualch’ora e nulla più” e non si comprende se tale precisazione indichi un evento di poco conto, oppure una squalificazione morale del fatto, od anche il timore di suscitare un intervento governativo di soppressione della manifestazione.
Importante è l’affermazione del parroco sulle superstizioni ottocentesche: “i pregiudizij si sono diminuiti al presente, e le superstizioni in confronto del passato”. Siamo in un periodo di definitiva liberazione da pratiche magiche o para-religiose dei secoli precedenti, frutto dell’impotenza dell’uomo di fronte agli eventi non conosciuti e quindi non governabili; rimane ancora la piaga della forte mortalità infantile e i decessi di molte partorienti come conseguenza di parti travagliati o avvenuti in casa, quindi con condizioni igieniche precarie. Situazione questa, che alimenta ancora tra i contadini fenomeni di “streghe e stregherie” , per scongiurare ciò che la scienza medica del tempo non riusciva ancora a debellare, come invece accade oggi.
La trattazione del primo argomento della Relazione si conclude con l’accenno del parroco sia ad un’eccessiva credulità nelle immagini miracolose, fenomeno sempre arginato dalla Chiesa per impedire deviazioni teologiche, sia allo sperpero di soldi per sfarzosi ed inutili riti religiosi per i defunti, che potrebbero essere diversamente onorati con la devoluzione di denari in opere parrocchiali. Ed è proprio questo sfarzo, unito a quello già visto in occasione di matrimoni, che fa supporre la presenza nel territorio goitese di un discreto numero di famiglie ricche o almeno agiate, che in tali circostanze manifestavano la loro solidità patrimoniale.
Il secondo argomento del questionario napoleonico riguarda “le opere agrarie” e ci aspetteremmo una descrizione, seppur concisa, delle principali attività svolte allora nei campi, come fecero ad esempio nella loro Relazione sia Piovani, Podestà di Ostiano, sia don Carri, parroco di Nuvolato, invece ecco sbucare dallo scritto di don Sartorio un’accalorata ed energica raccomandazione (perchè trovasse ascolto e magari anche realizzazione presso il Governo francese) per eliminare l’oziosità di molti contadini durante il riposo dei mesi invernali ed impiegarli fruttuosamente nel lavoro della filatura al caldo della stalla. Sinceramente stupisce come abbia potuto proporre una sia pur fattibile proposta in un tempo in cui era molto viva e sentita la separazione delle mansioni e dei lavori maschili da quelli femminili e la filatura era proprio un’attività prettamente delle donne. Altra “rampogna” del parroco è quella rivolta all’abuso ed esagerato suono delle campane all’avvicinarsi dei temporali primaverili ed autunnali; a nulla sono valsi, probabilmente, i tentativi di modificare tale abitudine pretesa “scrupolosamente dai Contadini”, quindi non rimane che far presente il ritenuto abuso alle Autorità, sperando in un drastico intervento. E’ detto espressamente che tale abitudine era molto radicata tra gli abitanti del territorio ed aveva evidentemente una funzione informativa per avvisare la gente del pericolo imminente di un temporale ed indurre a prendere le dovute precauzioni per porre al riparo persone, animali e prodotti agricoli posti all’aperto. Ma i nostri antenati avevano certamente intuito che il suono forte e continuato delle campane contribuiva ad allontanare il pericolo della tempesta; chissà se attribuivano tale potere alla sacralità del suono delle campane oppure alla dirompenza sonora prodotta, proprio come oggi in certe zone si pratica lo sparo di cannoncini appositi per “rompere le nubi” minacciose !
Molto significativo, seppur esposto con molta naturalezza per la normalità del caso, è l’accenno alle feste sull’aia, durante le quali “la gente di Campagna si trastulla col suonare, cantare, saltare, e danzare” per festeggiare il termine dei faticosi e prolungati lavori agricoli, come in occasione del finir di mietere, di portare sul granaio il Raccolto, di vindemia, e simili incontri”. Ecco emergere il cuore della cultura contadina d’un tempo, di cui oggi si conservano sbiaditi ricordi o se ne perpetuano forme ormai svuotate di valenza e significato. Non è il caso di lasciarsi andare in rimpianti nostalgici e romantici, ma è doveroso segnalare, almeno per ricordare, quanto questi incontri festosi fossero importanti e costituissero una delle poche occasioni di divertimento collettivo in un ambiente agricolo segnato dal succedersi ripetuto di giorni ricchi soltanto di duro lavoro della terra, svolto a forza di braccia e con pochi strumenti meccanici. Altra abitudine, da tempo scomparsa, è quella della “Maitinata”, che col tempo si chiamerà “Serenata”, con cui veniva dichiarato l’amore alla ragazza desiderata con una sorpresa musicale. Ed a proposito di canzoni è opportuno soffermarci su quanto scrive don Baldassarre a proposito delle “canzoni nazionali”: “Delle canzoni poi così dette nazionali ne sussiste ancora qualch’una, poichè queste, come le comuni Canzoni, a vicenda si cambiano di mano in mano”. Il Governo napoleonico desidera conoscere se in loco si cantano inni patriottici relativi alla precedente dominazione asburgica, considerati logicamente non consoni ai nuovi tempi, ed ecco che la risposta del nostro parroco è molto diplomatica: dice e non dice, fa soltanto intendere che ne esistono alcune, senza citarle ed anzi ne giustifica implicitamente l’esistenza, poichè “a vicenda si cambiano di mano in mano”, come dire che ogni Stato, ogni Dominatore possiede le sue, che poi la gente impara e canta, adeguandosi ai tempi.
Il terzo ed ultimo quesito riguarda il dialetto parlato in loco.
È questa la parte più lacunosa, breve e discutibile della Relazione, del resto è ammissibile che un parroco non debba essere anche un dialettologo, anzi fa del suo meglio e si cimenta in descrizioni linguistiche che sono più il frutto di buona volontà che di competenza in materia, tenendo soprattutto conto che a quel tempo era ancora molto usato il latino, indispensabile l’italiano “regionale” (non c’era ancora l’unità politica d’Italia e meno ancora quella linguistica!), ed aborrito invece il dialetto, considerato la lingua degli analfabeti. Asserisce che il dialetto goitese assomiglia a quello di città, mentre differisce da quello di Rodigo, Volta, Cavriana e Solferino. Evidenzia i suoni gutturali di C, D e T e giudica “men rozzo e più proprio” il dialetto goitese e “più cortese il tratto degl’abitanti”, si tratta del solito giudizio soggettivo in base al quale ad ognuno piace e risulta più armonioso il proprio dialetto, mentre è sgradito quello delle zone limitrofe. Dalle scarse indicazioni offerte dalla Relazione non è possibile trarre indicazioni più precise sullo stato del dialetto goitese in questo primo decennio dell’Ottocento, certamente non dev’essere stato molto difforme dal nostro attuale.
Ecco, dunque, come la lettura e l’analisi di un singolo documento ci hanno consentito di aprire una finestra su Goito all’inizio dell’Ottocento, stimolando la nostra mente e la nostra sensibilità, per percepire immagini, colori, suoni ed ambienti di quel tempo, arricchendo in tal modo la conoscenza e l’amore per la nostra terra.
Giuliano Mondini