INTRODUZIONE

L’idea di effettuare uno studio riguardante l’oratorio di San Pietro in Vincoli a Massimbona mi venne nel Marzo del 2001, quando la chiesa fu inaugurata in seguito ai restauri della zona presbiteriale. Non era soltanto l’edificio religioso ad attirare il mio interesse, ma anche tutta la realtà circostante: il borgo, il mulino, il fiume, la strada Postumia. Avevo insomma di fronte una realtà medievale da scoprire.
Il lavoro inizialmente è stato molto arduo ma ricco di soddisfazioni in quanto ogni volta che mi recavo a visitare l’oratorio mi trovavo sempre di fronte dipinti parietali nuovi che man mano emergevano dall’intonaco.
Nella prima parte di questo lavoro quindi ho concentrato l’attenzione esclusivamente su questa chiesa. Essa, di probabile fondazione benedettina ad opera dei monaci provenienti dal monastero di San Genesio di Brescello, è di impianto romanico (ad aula unica con facciata a capanna), si affaccia sull’antica via Postumia e venne probabilmente edificata agli inizi del XII secolo, come luogo di preghiera per pellegrini e viandanti. Il borgo nel quale si trova, Massimbona (facente parte del Comune di Goito nell’alto mantovano), viene ricordato nei documenti antichi per l’importante presenza di un mulino che sfruttava la forza idrica proveniente dal vicino fiume Mincio.
Gli affreschi ritrovati nell’oratorio sono tredici ma, visto il loro precario stato di conservazione, è oggettivamente difficile farne un’analisi chiara e precisa; sono databili per la maggior parte al XIV e XV secolo.
In un secondo tempo, ho concentrato il mio interesse su altre realtà campestri che in qualche modo si richiamassero a San Pietro in Vincoli. Sono così emerse testimonianze artistiche importanti e in gran parte inedite in piccole chiese di campagna dimenticate dal mondo. Ho perciò analizzato singolarmente le seguenti chiese: Madonnina di Mezzacampana a Cereta, San Lorenzo a Guidizzolo, San Pietro a Redondesco, Santa Vergine Annunciata a Mariana Mantovana, Santissima Trinità ad Olfino, Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli, San Biagio a Zello. Dall’analisi completa di questi edifici e dell’oratorio di San Pietro in Vincoli, sono emersi elementi stilistici ed iconografici (come per esempio il ripetersi delle medesime figure di Santi) costanti che danno vita ad un linguaggio pittorico caratteristico ed omogeneo del territorio mantovano nel Medioevo.

A Lorenzo ed a mio nonno Gigi
Giulia Vaccari 

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III 

Capitolo I

1. IL BORGO DI MASSIMBONA

1.1 VICENDE STORICHE

Il piccolo borgo di Massimbona sorge a circa quattro Km dalla città di Goito da cui dipende  Difficile è poter tracciare le sue vicende storiche in modo chiaro e sicuro, ma è certo che fondamentale importanza hanno avuto nella sua evoluzione due vie di comunicazione strategiche che passavano di qui: la strada Postumia e il fiume Mincio[1].
La prima fu realizzata in epoca romana e precisamente nel 148 a.C. ad opera del console Spurio Albino: essa collegava il mar Ligure con quello Adriatico ed aveva lo scopo di difendere i territori che attraversava dalle popolazioni indigene.
Il percorso stradale toccava i seguenti centri: Genova, Tortona, Piacenza, Calvatone, Gazoldo degli Ippoliti, Goito, Massimbona, Villafranca, Verona, Vicenza, Oderzo, Portogruaro, Aquileia. Essa sembra inabissarsi a Goito per poi riemergere a Malavicina (Verona) passando probabilmente proprio attraverso Massimbona (da Goito la strada giungeva a Massimbona oltrepassando il Mincio nella zona di Merlesco).
È chiaro quindi come il piccolo borgo fosse nodo cruciale per il collegamento Mantova-Verona.
Così come evidenziano le mappe del catasto lombardo-veneto e quelle delle acque e risaie[2] , il fiume Sarca, che fuoriuscito dal lago di Garda assume il nome di Mincio, partendo da Peschiera inizia la sua lunga corsa verso il Po, attardandosi prima di giungere a Goito nel territorio di Massimbona. Qui il fiume inizia a ristagnare creando una sorta di guado. In età romana Massimbona doveva apparire come zona estremamente paludosa vista la presenza di acque stagnanti, ma nel contempo anche assai fertile. Il paesaggio era quindi probabilmente caratterizzato da una serie di boschi, selve, pascoli interrotti da sporadici campi coltivati, attorno ai quali sorgevano piccoli nuclei abitativi.
Ancora oggi a tal proposito vige una certa incertezza sulla valenza del nome Massimbona: alcuni ritengono derivi da “mansiones”[3], termine latino con cui si indicavano brevi tratti di sosta lungo il percorso della Postumia; il “mansio poteva essere un’osteria o una locanda presso cui ristorarsi.
Secondo altri l’origine è legata al vocabolo latino – medioevale “mansus”, che sta per podere, unito a “bona”, con cui si indicano appunto poderi di terra buona, cioè fertile e produttiva.[4]
Al periodo longobardo risale la presenza dei benedettini nel territorio, quando l’alto mantovano passa alla giurisdizione della diocesi di Brescia. Nel 1007 viene fondato a S.Benedetto Po, nel basso mantovano, il convento di S.Benedetto in Polirone[5] ad opera di Tedaldo di Canossa, notevolmente arricchito in seguito dalle donazioni di Matilde di Canossa.
Grazie ad esse ben presto i possedimenti benedettini si ampliano e la comunità acquisisce potere; all’incirca negli stessi anni infatti passano sotto il controllo benedettino due importanti conventi: S.Maria di Castiglione a Parma e S.Genesio a Brescello. È proprio a quest’ultimo che, secondo un documento datato 12 novembre 1099[6], Matilde vende terreni situati a Pegognaga, Gonzaga, Scorzarolo e Goito. Quest’ultimo poi, insieme ai terreni di Massimbona, passa nei primi decenni del XII secolo direttamente sotto il controllo di S.Benedetto in Polirone. A testimonianza di ciò si vedano due documenti: il primo datato 20 marzo 1105[7] in cui papa Pasquale II conferma al monastero i propri beni, che nel mantovano erano caratterizzati da quindici località tra cui Goito, e il secondo datato 1111[8], in cui l’imperatore Enrico IV ribadiva all’abate Alberico tutti i beni compreso l’alto mantovano e la parte sinistra del Mincio. È quindi ai Benedettini che va probabilmente attribuita la bonifica dei terreni e la costruzione della chiesa di S.Pietro in Vincoli (oltre al famoso convento di San Martino a Goito, sui cui resti oggi sorge il teatro comunale).
A partire dal 1115 inizia anche per Massimbona una florida attività comunale a cui va attribuita una vera e propria ripresa dell’economia attraverso l’introduzione della coltivazione dei cereali inferiori.
In età signorile Massimbona diviene attivissimo borgo rurale e commerciale, come testimoniano due elementi fondamentali conformanti il paesaggio: il mulino ed il ponte.
Del primo (fig.A.16 – A.19) non si ha una data certa di fondazione, ma esiste un termine post quem, il 1393: tale data, unita al cognome Bonnetti si trovava infatti anticamente incisa su una trave del mulino. Esso sfruttava l’energia idrica per macinare il grano e si sviluppava in due punti nevralgici: uno con ambienti paralleli al fiume, l’altro sovrastava l’acqua ed era luogo di raccolta di grano, farina ed arnesi. Il Vaini[9] nel proprio testo afferma come fosse forte la mentalità protezionistica esistente all’epoca, per cui precisi documenti stabilivano che non potesse venir costruita nessuna macina lungo il tragitto del Mincio al di fuori di quella del mulino di Massimbona, questo per evitare esportazioni verso il Bresciano.
Altra significativa testimonianza legata al mulino è data da un documento[10] risalente al 1518 in cui si attesta l’importanza di tale luogo. In effetti un Commissario gonzaghesco, tal Lo Petro, se ne era impossessato impropriamente sfruttandone i diversi vantaggi che portava, nel documento viene proprio accusato per questo.
Il ponte invece, insieme a quello di Goito, è citato in documenti dell’XI secolo (risalenti all’anno 1318 e riguardanti pedaggi, porti e ponti), di cui il Carreri[11] parla a proposito del pagamento del dazio sulle merci qui circolanti.
Senz’ombra di dubbio quindi Massimbona era punto strategico per il commercio verso il cremonese ed il bresciano e lungo questo ponte probabilmente transitavano anche gli stessi commercianti veneziani di sale.
Il dominio signorile fu prima dei Bonacolsi e poi dei Gonzaga, in linea con quanto si verificò in tutta la provincia mantovana. A tal proposito si possono considerare tre documenti significativi presenti nell’archivio Gonzaga: un acquisto di alcuni terreni in Villabona e Massimbona nel 1355[12]; la cessione di terre da parte di Ziliola, figlia di Botirone Bonacolsi, a Bonacursio, figlio di Guidone orefice da Crema, nel 1353[13]; gli affari di Guidone, Filippo e Feltrino riguardanti Massimbona e Buscoldo nel 1355.[14]
Va considerato che in tutti questi documenti il piccolo borgo è citato insieme a Goito, Ceresara, Cereta, Cavriana e Pozzolo quale proprietà allodiale, cioè possedimento fondiario libero da ogni obbligo di prestazione personale e reale.
Esso è inoltre sempre citato insieme a Villabona: si tratta di una grande corte a circa due Km da Massimbona ed è quasi certo che fosse il luogo più importante adibito alla conservazione dei prodotti agricoli e all’allevamento del bestiame, mentre l’altro era luogo di coltivazione. Entrambe le località sono presentate insieme in una carta topografica del territorio veronese del 1438[15], divise dalla fossa Pozzolo-Molinella (fig.A.8).
Significativa per un forte sviluppo di Massimbona è successivamente la sistemazione idraulica attuata da Ludovico Gonzaga che eredita il territorio da Filippo e Feltrino. Essa si verifica tra il 1460 e il 1465[16] come testimonia il carteggio gonzaghesco tra Ludovico e l’ingegnere Giovanni da Padova.
Èinoltre nello stesso arco di tempo che viene migliorata la gestione agricola della zona come risulta da un altro epistolario tra il marchese Ludovico e i suoi inviati (1412-1478)[17]. A partire dalla fine del 500 il territorio passa, in seguito alla decadenza dei principi dominanti, alle casate nobiliari che ad essi erano fedeli.
Massimbona vede così passare sul suo territorio i conti Chieppio, Custoza, sino all’importante avvento nel 1732 dei marchesi Cavriani. Nonostante i diversi passaggi di proprietà la sua condizione economica resta pressoché invariata.
L’avvento dei Cavriani nel ’32 è di rilievo, essi infatti riscattano Massimbona dai vincoli a cui molti terreni erano sottoposti durante il dominio dei Custoza ed acquistano altri terreni con lo scopo di giungere ad un pieno controllo del territorio.
Con tale famiglia accanto ad un notevole miglioramento della produzione agricola ed un’ incentivazione dell’attività del mulino, si assiste ad un notevole abbellimento della chiesa di S.Pietro in Vincoli.
L’importanza del dominio dei Cavriani è ben documentata dalla tavola d’estimo dei terreni e prefabbricati nel territorio di Goito sulla riva sinistra del Mincio redatta nel 1770 (fig.A.9)[18]: la gran parte del territorio è sotto il controllo di Ferdinando Cavriani.
Di estrema importanza è anche ciò che emerge dal catasto lombardo-veneto del 1860 (fig.A.10)[19] che mostra come tutto il territorio di Massimbona sia sotto il controllo di Annibale Cavriani.
A partire dal XIX secolo infine Massimbona come tutto il distretto del Mincio viene frantumata in diversi possedimenti di cui divengono proprietarie le varie famiglie borghesi.
È presumibilmente durante il dominio austriaco che il piccolo borgo, direttamente dipendente da Goito, diviene comune[20]. Sotto l’Austria infatti Mantova è classificata come provincia suddivisa in 17 distretti e 73 comuni: Goito rientra insieme ad altri paesi e alla stessa Massimbona nel distretto di Volta. A testimonianza di ciò si consideri che il 1 gennaio 1816 inizia la compilazione di tutti i registri anagrafici di Goito. 

1.2 STATO DEGLI STUDI SULLA CHIESA

Presentando le pareti interamente intonacate, la piccola chiesa di Massimbona non ha mai suscitato particolare interesse e quindi non è mai stata oggetto di studio.
Scorrendo infatti diverse monografie riguardanti le chiese della provincia mantovana[21], si trovano analisi di molti oratori e chiesette affini a Massimbona (si veda per esempio l’oratorio di S.Lorenzo a Guidizzolo, quello di Torricella di Ostiano, o di Campibonelli a Mariana mantovana), ma nessun interesse è rivolto alla nostra chiesa.
È necessario giungere sino al 1990 per trovarla citata da Marchioro nel volume Le chiese goitesi, storia arte e tesori[22]: ad essa comunque è riservato uno spazio piuttosto esiguo, in quanto all’epoca ancora non erano emersi i numerosi dipinti parietali. Si mette solamente in rilievo la presenza dei due ovali ad olio ai lati dell’altare rappresentanti rispettivamente la Morte di S.Giuseppe e l’ Adorazione dei Magi, e si fa un’attenta descrizione della pala d’altare cinquecentesca raffigurante S.Giuseppe avvertito dall’angelo, oggi non più nella chiesa, ma nella canonica di Goito.
Abbastanza esauriente risulta il lavoro svolto da Sara Miyata nella sua tesi di laurea sulla basilica di S.Pietro in Goito, in un capitoletto dedicato a S.Pietro in Vincoli[23]. Lo studio è svolto nell’anno accademico 1999/2000, quando emergono i dipinti parietali prima nascosti dall’intonaco. Viene proposto un confronto tra la chiesa campestre di Massimbona e altre piccole chiese dell’alto mantovano caratterizzate da pareti a palinsesto su cui convivono dipinti di epoche diverse; in particolare si citano: il romitorio di S.Pietro a Redondesco, la chiesa del Cimitero a Marcaria, gli affreschi di S.Lazzaro, conservati In S.Martino a Gusnago, di S.Erasmo ad Asola, di S. Lorenzo a Guidizzolo, di S. Rocco e la Torricella ad Ostiano, di Olfino a Monzambano, quella di Campi Bonelli a Mariana Mantovana, della Madonnina di Mezzacampagna a Cereta, del Santuario della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli[24].
In particolare la Miyata concentra l’attenzione sul confronto tra due Madonne con Bambino di S. Pietro in Vincoli e di S. Lorenzo a Guidizzolo, trovando parecchi punti di convergenza. Successivamente passa all’analisi del santo sulla parete destra in controfacciata, identificandolo come il più arcaico (trattasi secondo lei di S.Lorenzo); analizza poi brevemente il S.Cristoforo in basso sulla parete sinistra e la Madonna con Bambino in controfacciata, giudicando quest’ultimo come il dipinto migliore. Infine, attraverso le visite pastorali, ricostruisce il patrimonio della chiesa in parte ancora oggi conservato nella basilica di Goito: la pala d’altare raffigurante San Giuseppe avvertito dall’angelo di Domenico Fiasella, la Cacciata dal tempio dei mercanti dello Schivenoglia, i tondi raffiguranti la Morte di S.Giuseppe e l’Adorazione dei Magi, le statue, i Crocifissi e le argenterie.
L’ultimo lavoro è quello della Palvarini Gobio Casali[25], del marzo 2001, all’epoca dell’inaugurazione della chiesa a seguito dei restauri.
Anche qui, dopo un’analisi strutturale dell’edificio, si passa allo studio dei dipinti e degli arredi citando ancora una volta le opere di Fiasella e Schivenoglia ed i due tondi ad olio. La studiosa si sofferma poi sull’analisi dell’arredo ligneo sottolineando l’importanza della Madonna in trono con Bambino, si identificherebbe con la Regina del Rosario.Tale opera sarebbe accomunabile per la studiosa ai simulacri della Madonna della Ghiara a Suzzara, alla Madonna del Dosso del Santuario di Casalmoro, alle Madonne di Castelgoffredo e Canneto, a quella della Comuna di Ostiglia.
Passando ai dipinti evidenzia la difficoltà nel leggerli, visto il loro precario stato di conservazione: riconosce anche lei le figure di S.Lorenzo, di S.Cristoforo e di Sant’Antonio; si sofferma in particolare sulle due Madonne con Bambino (quella in controfacciata e quella al centro della parete sinistra) che ritiene siano da inquadrare nello schema delle Madonne bizantine della tenerezza. Infine ribadisce l’importanza di un attento paragone tra i dipinti presenti in S.Pietro in Vincoli e quelli di molte chiese campestri dell’alto mantovano. 

Note:
[1] Per le notizie inerenti al rapporto tra fiume Mincio e strada Postumia con il borgo di Massimbona si vedano: N.Zini, Ipotesi per una piccola storia Goito (anni ’90); V.Fumagalli, Città e campagna nell’Italia medioevale (Il mondo medioevale: studi di storia e storiografia, sezione di storia della società, dell’economia e della politica;6), Bologna 1985; L.Bosio, Le strade romane della Venetia e dell’Histria Padova 1990; P.Tozzi, La via Postumia Pavia 1999; M.Palvarini Gobio Casali, Massimbona: la sua storia, Goito 2001.
[2] Per la descrizione geografica del territorio del tempo si vedano in Archivio di Stato di Mantova: Indice delle mappe del Catasto Teresiano e lombardo-veneto (LIII; LII; XLI;); Mappa delle acque e delle risaie:Villabona, Massimbona e Marenghello (323). Fossa di Pozzolo da Massimbona sino a Villabona (439).
[3] P.Tozzi, La via Postumia,Pavia 1999.
[4] M.Palvarini Gobio Casali, Massimbona e la sua storia,Goito 2001.
[5] P. Torelli, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, Mantova 1930, pp. 45 – 54 G. Mondini, Antiche memorie Goitesi, Goito 2001, pp. 25, 26, 27 M. Vaini, Dal comune alla signoria, Mantova dal 1.200 al 1328, Milano 1986 pp. 63 – 73.
[6] Milano Archivio di Stato, Diplomatico – Matilde, estratto cartaceo 1328 (sotto la data 1107). “Ego Matilda comitissa et educatrix f. qd. Bonefacii, professa lege…..”
[7] Milano, Archivio di Stato, Diplomatico, bolle S.B. “Paschalis ep. Servus servorum Dei, Alberico ab. Monast. S.Benedicti super Padum…….”
[8] Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, p XIII 34, b 3326. “Heinricus IV imp, Alberico ab. S.Benedicti iuxta Padum eiusque successoribus per ordinem ab. Cluniacensis…..”
[9] M.Vaini, Dal comune alla signoria, Mantova dal 1200 al 1328 Milano 1986 p. 303.
[10] Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga 6 B 2497.
[11] F.C.Carreri, Le condizioni medioevali di Goito, Mantova 1899, passim.
[12] Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, dominio della città e stato di Mantova (B) n.79 antecessori e successori ai dominanti di Mantova.
[13] Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, dominio della città e stato di Mantova (B), n. 16 compere fatte dai dominanti.
[14] Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, affari di famiglia dei principi dominanti di Mantova (D), n. 4 affari economici concernenti le corti e le possessioni.
[15] Archivio di Stato di Mantova, Mappa delle acquee, XV secolo.
[16] Archivio di Stato di Mantova, Carteggio Gonzaghesco (busta 2096).
[17] Archivio di Stato di Mantova, Carteggio Gonzaghesco (buste 2096-2097-2098).
[18] Archivio di Stato di Mantova, Catasto Teresiano, tavola d’estimo dei terreni e prefabbricati nel territorio di Goito sulla riva sinistra del Mincio, Album 1533/1534.
[19]Archivio di Stato di Mantova, Catasto lombardo-veneto di Goito del 1860.
[20] G.Guernelli, Memorie storiche di Goito, Mantova 1975, p. 88.
[21] Si vedano testi quali: A. Bertolotti, Comuni e Parrocchie della provincia mantovana, Mantova 1893; V.Matteucci, le chiese artistiche del mantovano, Mantova 1902.
[22] C.Marchioro, le chiese goitesi: storia, arte, tesori, Goito 1990, pp. 92-93.
[23] S. Miyata, Tra fermento architettonico dell’edilizia religiosa e soppressioni ecclesiastiche nel ‘700 mantovano: il caso della basilica di S. Pietro in Goito, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Parma, Relatore prof. C.Ceschi. A.A 1999/2000.
[24] A. Bertolotti, I comuni e le parrocchie della provincia mantovana, Mantova 1893.
[25] M. Palvarini Gobio Casali, Massimbona: la sua storia, Goito 2001.
 

Capitolo II

2. L’ORATORIO DI SAN PIETRO IN VINCOLI

2.1 STRUTTURA ARCHITETTONICA

La piccola chiesa campestre dedicata a S.Pietro in Vincoli [1], di proprietà della parrocchia di S.Pietro Apostolo in Goito, si presenta di modeste dimensioni, m 14 x 18, dotata di un basso campanile con un motivo a cuspide in cotto consolidato e quattro monofore sui lati (fig.B1 – B.7). In esso è presente una campana tuttora funzionante istoriata da stemmi gentilizi e riportante l’iscrizione: PETRUS ET FRANCISCUS FILIUS VERNACULI CAVADINI (Pietro e il figlio Francesco abitanti di Cavaion). Tale scritta lascia supporre che probabilmente avessero soggiornato qui signori provenienti dal territorio veronese[2].
L’edificio, interamente in sassi e cotto, consiste in una semplice struttura a capanna con un timpano al cui centro è inserita una finestra rettangolare. Quest’ultima, insieme ad altre due aperture non originali, dà luce all’ambiente (fig.B.8).
Le pareti esterne presentano, dopo il restauro del 2000, una base di intonaco in grassello, calce idraulica e sabbia locale non lavata con coloritura superficiale di silicati di tonalità gialla[3]; affiorano inoltre sulla parete di destra, in prossimità della finestra, stralci di affreschi e al di sopra di essi parti sporgenti in ferro brunito (fig.B.9).
Il tetto è caratterizzato da un manto di copertura in coppi di recupero, mentre il portone d’ingresso anticipato da tre scalini è in legno di rovere cerato e sopra di esso è presente lo stemma in cotto murato dei conti Cavriani (fig.B.16), antichi proprietari della chiesa.[4]
L’interno è ad aula, costituito cioè da un’unica navata rettangolare, terminante con un presbiterio allungato e ristretto culminante in un unico altare (fig.B.10,B.11,B.12).
Le pareti interne, bisognose di un urgente restauro, presentano una struttura a palinsesto caratterizzata da dipinti di epoche diverse che si sovrappongono gli uni agli altri, mentre le decorazioni della zona presbiteriale, già restaurate, mostrano una situazione più chiara e di più facile studio.
Il pavimento è costituito da mattonelle in cemento posate su un battuto di calcestruzzo magro, poste nella chiesa nel 1958[5] all’epoca dell’ultimo intervento eseguito su di essa al posto del precedente pavimento in cotto mantovano. La copertura interna del soffitto è data da una serie di capriate intervallate da travi di ripartizione, esse furono senz’altro realizzate precedentemente al pavimento in quanto, sempre secondo la medesima testimonianza orale, nel 1958 furono dipinte ad olio. Con molta probabilità la loro creazione è da far risalire agli anni ‘40 del 900, nel periodo in cui sono eseguiti altri interventi come la demolizione dei due altari laterali.
Non esiste una data precisa di fondazione della chiesa, per cui unica possibilità è quella di suggerire ipotesi in base ai documenti presenti nell’Archivio di Stato e nell’Archivio Storico Diocesano di Mantova. Le caratteristiche che l’edificio presenta rientrano nella tipologia della chiesa campestre (navata unica, piccole dimensioni, facciata a capanna) tipica di molte chiese della campagna dell’alto mantovano, per esempio quella della Madonnina di Mezzacampagna a Cereta di Volta Mantovana o la chiesa di corte Settefrati a Rivalta sul Mincio, edificate intorno all’XI-XII secolo.[6] Del resto non solo nel mantovano, ma in tutta la pianura padana è sufficiente un corso d’acqua, un ponte ed una antica via romana per giustificare la presenza di un piccolo oratorio campestre: si veda per esempio le chiese di S.Lorenzo presso Calvatone o di S.Rocco ad Ostiano, entrambe nella provincia di Cremona, che ripropongono caratteri simili a S.Pietro in Vincoli a Massimbona.
La presenza di un mulino e di una macina nel territorio di Massimbona e della via Postumia che qui passava, rendeva questa zona assai trafficata e quindi risultava necessaria la presenza di un sacello per i fedeli che qui sostavano: non a caso infatti la chiesa è collocata a ridosso del mulino.
È da ritenere valida l’ipotesi di una fondazione benedettina dell’oratorio legata all’avvento di monaci provenienti dal monastero di S.Genesio di Brescello, a sua volta dipendente da quello di S.Benedetto in Polirone, a cui la contessa Matilde di Canossa aveva concesso nel 1099[7] il territorio di Goito e le zone limitrofe. Per cui l’oratorio potrebbe risalire ai primissimi anni del XII secolo e dipendere direttamente dal convento benedettino legato alla chiesa di S.Martino presente a Goito che i monaci avevano fondato dopo il loro avvento in territorio goitese.
Ad avvalorare maggiormente tale ipotesi concorre il fatto che il culto di San Pietro era largamente diffuso dai monaci benedettini che in lui vedevano il fondamento della chiesa di Cristo per l’autorità ricevutane e la qualità del martirio. Per cui spesso le pievi e gli oratori collocati in punti importanti (come quello di Massimbona che si trova lungo la via Postumia) venivano dai monaci consacrati a tale Santo.
Assai arduo è poter dire quale fosse la struttura originaria della chiesa, vista la scarsità di documenti che la riguardano direttamente e i vari cambiamenti, spesso non testimoniati per iscritto, che essa ha subito nel corso dei secoli.
Si può supporre che in origine presentasse una semplice pianta rettangolare con un unico altare centrale ed un presbiterio piuttosto ampio. Del resto già nella prima metà del cinquecento è ricordata come chiesa campestre[8] e come tale doveva avere una struttura piuttosto scarna e semplice, utile ai pochi abitanti del borgo, dediti all’attività del mulino, e ai passanti della via Postumia.
In essa non vi fu nel corso dei secoli vivace attività ecclesiastica per cui l’edificio fu un po’ abbandonato a se stesso, tant’è che ogni visita pastorale riporta la necessità di riparazioni, abbellimenti, aggiunte. Si veda per esempio nel 1547 il bisogno di travi per sostenere il tetto[9], di tegole per coprire la chiesa e la casa[10], di calce per smaltare ed imbiancare le pareti.
Ogni volta emergeva il rischio che essa venisse abbattuta e sostituita da altri edifici: addirittura si legge in una visita Pastorale del 1556 che, in dato anno, fu allontanato il sacerdote da Massimbona per l’impossibilità di dare a questi una remunerazione; esso verrà ripristinato solo nel 1558.
La presenza di un unico altare è testimoniata in alcune visite pastorali in cui si parla di esso e dei cambiamenti apportategli. Nel 1575[11] infatti esisteva un altar maggiore che necessitava di una risistemazione, visto che era venuta meno la copertura del tetto sopra di esso, e di un abbellimento: venne quindi ordinata la realizzazione di una pala rappresentante S.Pietro Crocifisso da collocare sopra l’altare.
Riferimenti all’altare sono presenti anche in una visita pastorale del 1674[12] in cui si parla della necessità di inserire due grandi manici ai lati della pala e di fare un baldacchino da porre sopra l’altare.
È però nella prima metà del ‘700 che esso subisce una modifica radicale, quando in occasione dell’anno santo 1725[13] il vescovo mons. Guidi di Bagno attua un ampio processo di restauro, testimoniato dall’incisione presente sulla fronte principale esterna della chiesa, sopra la finestra all’interno dell’architrave, durante il quale inserisce un nuovo altare (fig.B.15), che è poi l’attuale, il cui disegno originale è conservato in Archivio di Stato.[14] Oltre all’inserimento di un nuovo altare, la visita pastorale del 1725, cita anche la necessità di un rifacimento della porta[15] e di porre una croce in ferro sopra il prospetto dell’oratorio.
Esiste una esemplificativa carta del Catasto Teresiano del 1770 che testimonia la presenza di una chiesa a pianta rettangolare con un unico altare, mentre la successiva carta del 1834 (fig.B.13)[16] mette in evidenza l’aggiunta di un corpo laterale e la presenza di due altari minori. Questi ultimi sarebbero stati demoliti durante il secondo conflitto mondiale e precisamente nel 1941[17], e secondo testimonianze esclusivamente orali, eliminati del tutto nel 1958 quando la chiesa assunse la conformazione attuale.
Nelle visite pastorali è citata inoltre più volte l’esistenza di un’abitazione per il sacerdote, che nel 1575 è definita piuttosto umile e due secoli dopo, esattamente nel 1725 è occupata dal sacerdote Don Giuseppe Batta Paina e da un eremita nero, dell’ordine dei francescani, tal Giuseppe Paierna[18], probabilmente proveniente dal monastero dei cappuccini di Goito, anche se non vi sono documenti che lo testimoniano con sicurezza.
Va citata inoltre la presenza a partire dalla seconda metà del Seicento di un cimitero[19] a ridosso della chiesa necessario affinché le anime del piccolo borgo ricevessero sollievo e assoluzione ante mortem nell’oratorio e potessero essere seppellite laddove avevano vissuto.
L’importanza che la chiesa assume nel corso dell’Ottocento, come punto di riferimento per i fedeli della zona e grazie anche agli abbellimenti ottenuti nel Settecento ad opera dei Cavriani, è testimoniata dalla sistemazione della strada che collega il borgo di Villabona alla chiesa di Massimbona nel 1853.[20] Tale lavoro rientra in una serie di opere pubbliche attuate per migliorare le condizioni del popolo dai consiglieri comunali: il marchese Annibale Cavriani, il conte Luigi D’arco, il conte Arrigo Custoza.
Cambiamenti radicali subì poi l’edificio nel XX secolo quando nel 1941[21], oltre all’abbattimento dei due altari, venne chiusa la porta del campanile e del casante, furono otturate due nicchie, i muri vennero tranquillamente intonacati, vennero fatti due tratti di pavimento e aggiunte due mensole.
Infine l’aspetto interno attuale è dato da un ultimo rifacimento risalente al 1958,[22] quando fu realizzato l’attuale pavimento in mattonelle di cemento posate su un battuto di calcestruzzo magro e data una coloritura con colori ad olio alla capriate e alle travi di ripartizione del tetto. 

2.2. ARREDO LIGNEO E DECORAZIONE PITTORICA

Per ciò che riguarda gli arredi pittorici e lignei presenti nella chiesa, oltre alla straordinaria distesa di affreschi scoperti casualmente nel 1994, grande importanza ha avuto il dominio dei conti Cavriani. Furono principalmente essi, come già detto, che contribuirono all’abbellimento della chiesa ed ad arricchire il suo patrimonio artistico: basti consultare il loro inventario di mobili presente in Archivio di Stato per rendersi conto dell’immane patrimonio che avevano acquistato per le diverse chiese e case in loro possesso. Del resto l’importanza che i conti acquisirono in Massimbona è testimoniata da una parte dai documenti presenti nell’Archivio Cavriani in cui Massimbona è più volte citata, e dall’altra dal loro stemma (fig.B.16) infisso sul prospetto della chiesa. Esso è in terracotta, diviso in quattro parti da una croce patente di rosso: la prima e la quarta parte sono fasciate da strisce argentee e nere poste in obliquo, la seconda e la terza riportano un’aquila bicipite incoronata.
L’arredo pittorico, oggi non più presente all’interno dell’edificio a causa dell’umidità del luogo, ma conservato nell’abitazione del parroco a Goito, è costituito inanzitutto da una pala d’altare un tempo posta sull’altar maggiore. Essa rappresenta S.Giuseppe avvertito dall’angelo (fig.B.17): è una grande tela ad olio,cm 178 x 122,5, raffigurante l’angelo che incita S.Giuseppe addormentato a partire per l’Egitto, mentre nella stanza accanto la Madonna culla il Bambino al lume di candela. Durante il periodo in cui l’opera fu esposta a Massimbona però si tentò una modifica all’iconografia per adattarla alla chiesa, camuffando San Giuseppe in un San Pietro (aggiungendogli le catene ai piedi cosi come vuole la sua iconografia) e celando la scena domestica della Madonna col Bambino. Tale informazione fu raccolta oralmente dallo studioso goitese Cesarino Marchioro dal parroco don Danilo Vareschi presente ai tempi del restauro della pala eseguito negli anni ottanta.[23] Tale studioso ipotizza inoltre che quest’opera debba risalire alla seconda metà del Cinquecento in riferimento a quanto riportato nella visita pastorale del 1575, mentre in essa si parla di una supposizione.[24] Tuttavia studi più recenti[25], con i quali io stessa concordo, attribuirebbero l’opera a Domenico Fiasella (Sarzana 1589 – Genova 1669) attivo a Roma tra il 1607 e il 1615 nella cerchia dei caravaggeschi legati alla figura del Cavalier D’arpino. Tra gli altri viene a contatto con il Fetti, il Silva, il Viola, tutti artisti conosciuti nell’ambito dei Gonzaga. Il quadro infatti appartiene probabilmente all’insieme di opere commissionate da Carlo I Nevers per la Chiesa dell’Eremo dei Camaldolesi a Bosco Fontana[26]. In seguito poi alla soppressione di quest’ultimo nel 1793, i suoi beni furono venduti all’asta dalla Regia Commissione e probabilmente acquistati dai Cavriani[27]. Il quadro in questione rientrava in un gruppo con altre tre opere, un’ Immacolata Concezione, un Angelo Custode e un San Carlo, commissionate da Carlo I a Domenico Fiasella[28]. Nel caso del San Giuseppe il sovrano volle appositamente come soggetto quest’ultimo poiché in tal giorno(19 marzo) aveva sognato la fondazione del convento.

Riguardo allo stile dell’opera va inanzitutto detto che il Fiasella è, dopo l’esperienza romana, apertamente manierista, tuttavia in questo quadro già dimostra tendenze pienamente barocche: il tema del sogno, l’eleganza e la precisione con cui sono curate le figure, i forti trapassi di luce e ombra, i panneggi ricchi di pieghe e svolazzi, l’impostazione asimmetrica della stanza.
Sempre facente parte dell’arredo pittorico è un altro dipinto raffigurante la Cacciata dal tempio dei mercanti (fig.B.18) di Francesco Maria Raineri detto lo Schivenoglia (Schivenoglia 1676 – Mantova 1758). Egli insieme a Giuseppe Bazzani e Giovanni Cadioli è uno dei pittori più rappresentativi della pittura settecentesca di Mantova. Tale opera fu probabilmente acquistata dai Cavriani sotto l’impulso del vescovo Antonio Guidi di Bagno che, come testimonia una visita pastorale del 1725[29], desiderava l’abbellimento della chiesa; i Cavriani[30] e i Di Bagno infatti sono spesso ricordati nei documenti come acquirenti dello Schivenoglia.
Il quadro, in un pessimo stato di conservazione, rappresenta da una parte la figura isolata del Cristo contorto nella sua sofferenza e dall’altra l’affollatissimo mercato ricco di figure inquietanti e grottesche, deformate dall’oscurità.
Infine sono presenti due ovali, un tempo esposti ai lati dell’altare, raffiguranti uno la Morte di S.Giuseppe, l’altro l’Adorazione dei Magi. Si tratta di dipinti (115x 151 cm) ad olio su tela di fattura settecentesca ma di autore sconosciuto. L’adorazione dei Magi
(fig.B.20) presenta una tipologia tipica: la Madonna che mostra il Bambino agli astanti in abiti sontuosi ed orientali. La Morte di S.Giuseppe (fig.B19) invece mostra un soggetto più interessante e molto vicino al Bazzani (Mantova 1690-1769), artista mantovano della cerchia dello Schivenoglia, la tematica scelta è quella della morte, infatti il santo rappresenta l’uomo sul punto di morte che tenta di ricorrere all’aiuto divino.
Pure l’arredo ligneo, anch’esso non più presente a Massimbona, ma conservato nell’abitazione del parroco della chiesa di S.Pietro a Goito, era piuttosto ricco, come è solito trovare negli oratori campestri: si sono conservate due statuette raffiguranti S.Luigi Gonzaga (fig.B.23) e S.Carlo Borromeo (fig.B.24) di fattura settecentesca, un Crocifisso rinascimentale molto grande (fig.B.25) e sei candelieri.
Le cose più interessanti sono un confessionale in noce e una statua raffigurante la Madonna in trono con Bambino. Del primo (fig.B.21) esiste una documentazione[31] riguardante il restauro subito nel 1994; ora si trova nell’oratorio di Sacca di Goito, quest’ultimo dedicato alla Medaglia miracolosa della Madonna. È un confessionale in noce del XVIII secolo (m 2,40 x 2,20 x 1,05) costituito da tre archi poggianti sullo stesso piano, uno centrale e due laterali più piccoli, sormontati da un cornicione. Le quattro lesene che delimitano i vani sono tagliate e concluse da due capitelli: quelle poste all’estremità giungono fino alla pedana, mentre le altre due si fermano in corrispondenza dell’antello di accesso, leggermente aggettante ed intagliato con motivi geometrici. Tutto poggia su una pedana sagomata agli angoli; sulla parete di fondo ci sono gli inginocchiatoi ed i poggia gomiti e sono affisse due stampe ottocentesche raffiguranti il Crocefisso ed i Sacramenti. In origine era incassato nel muro della chiesa; il restauro ha permesso una reintegrazione di quasi tutte le parti mancanti e ha rilevato le scritte poste sullo schienale che testimoniano l’anno di costruzione (1714) ed un intervento di riduzione attuato nel 1941, quando furono eliminati anche i due altari laterali[32].
Anche la Madonna in trono con Bambino (fig.B.22) è stata restaurata nel 1994: essa rientra nella tipologia della Regina del Rosario, vista la corona sul capo e tra le mani. La realizzazione del corpo è attenta e realistica con arti ben torniti evidenziati da vesti damascate, volti pieni dall’incarnato vivace; la Madonna presenta lunghi capelli divisi e raccolti sulla nuca secondo l’uso del XVIII secolo.
Facile è il paragone con altre rare statue lignee sacre della zona: la Madonna del Santuario della Madonna del Dosso di Casalmoro, quelle di Castelgoffredo, di Canneto sull’Oglio, della Comuna di Ostiglia, la Madonna della Ghiara nella Canonica della parrocchiale di Suzzara. Sono quindi probabilmente da ricondurre tutte ad un’ ignota bottega mantovana settecentesca. 

2.3. CATALOGO DEI DIPINTI

Fianco meridionale dell’edificio, al centro della parete esterna
Pittore mantovano dell’inizio del XVI secolo
San Pietro (fig.1, 2, 3, 4)
Pittura murale, cm 100 x 200
Restauri: Studio Progetto 3, Mauro Nardi, 2000

Dopo il restauro attuato nel mese di novembre del 2000, è possibile avere una visione piuttosto chiara della decorazione pittorica. L’intervento, diretto dallo Studio Progetto 3, ha evidenziato una sovrapposizione di affreschi di epoche diverse.
Il più antico è realizzato direttamente sulla struttura muraria e segue l’andamento dei sassi che costituiscono il muro: difficile poterne fare un’analisi precisa in quanto è molto rovinato. Si intuisce l’esistenza di un ambiente paesaggistico, dato da alberi con tronchi violacei nella parte superiore e da una distesa di manto erboso nella parte inferiore. Tale immagine bucolica richiama probabilmente il territorio di Massimbona. L’affresco diviene quindi una specie di cartina geografica[33] indicante il paesaggio circostante utile ai pellegrini che qui sostavano: non a caso infatti è rappresentato sul fianco di destra della chiesa, che è quello visibile passando lungo la strada romana.
Massimbona si presenta quindi circondata da boschi e paludi ma ciò, visto lo stato molto precario dell’affresco, non ci consente di fare comunque una datazione precisa.
Lo strato pittorico superiore presenta invece l’immagine di San Pietro, delineato a chiare lettere: esso è reso con una struttura corporea tornita e volumetrica, ricoperta da un abito di foggia antica con un lungo manto arancio simile ad una toga. Il volto è posto di tre quarti, con barba e capelli bianchi (elemento distintivo del Santo) e un tentativo di rendere espressivi ed inquietanti gli occhi dello stesso. Lo sfondo, privo di ambientazione, è reso da un blu uniforme e tutta l’immagine è circondata da una cornice con una greca.
Il dipinto è inquadrabile nel primo Cinquecento in quanto il Santo presenta un corpo molto tornito e volumetrico che evidenzia la mano di un pittore che risente dell’influenza del nuovo ambiente mantovano legato all’avvento di Isabella D’Este. Quest’ultima giunge a Mantova nel 1490 e crea un asse artistico veneto – ferrarese con l’avvento di pittori o opere da entrambe le città: Lorenzo Costa, Dosso Dossi, Francesco Bonsignori. Va detto che alcuni di questi artisti, insieme agli allievi del Mantegna, lavorano anche in molte ville gonzaghesche vicine a Massimbona, oggi purtroppo non più esistenti, come quelle a Marmirolo e Cavriana. L’arcaicità del volto dal profilo troppo tagliente e dagli occhi tondeggianti legano comunque l’affresco alla mano di un pittore periferico attivo probabilmente negli oratori e pievi circostanti.
È da sottolineare infine la notevole somiglianza con un altro San Pietro di inizio Cinquecento, dipinto a fianco di una Madonna in trono con Bambino sulla parete destra dell’oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo.

Controfacciata, sopra il portale
Pittore mantovano del XVIII secolo
Stemma dei conti Custoza (fig. 6, 7)
Pittura murale cm 200 x 230

Lo stato di conservazione è abbastanza buono in quanto, essendo il dipinto collocato molto in alto, non fu soggetto a martellinature. È caratterizzato da una cornice decorativa tondeggiante con due riccioli ai lati, a motivi vegetali, ricco di intrecci di colore rosa intenso. Al centro, su uno sfondo azzurrognolo, si staglia a destra l’immagine di una torre di un castello sormontata da merletti di colore rosa, e a sinistra una forma vegetale di colore giallo. Tra i due elementi ne è presente un terzo, sempre di colore giallo, non chiaramente identificabile.
In un primo momento ho creduto si trattasse di uno stemma legato alla famiglia Cavriani, vista l’importanza che essa ebbe nell’abbellimento dell’oratorio. Non trovando però un preciso riscontro nella manualistica araldica, ritengo sia invece legato ai conti Custoza. Nello Stemmario mantovano del Castagna[34] ho infatti individuato uno stemma, presente nella chiesa di Marengo (a circa due Km da Massimbona), molto simile a quello in San Pietro in Vincoli ed appartenente ai Custoza. Di conseguenza il dipinto è sicuramente anteriore al 1732, anno di passaggio della proprietà di Massimbona dai Custoza ai Cavriani, e potrebbe esser stato realizzato nel 1725, in occasione dell’Anno Santo, quando la chiesa subì notevoli rifacimenti.

Controfacciata, parete sinistra
Pittore mantovano di inizi XIV secolo
Crocifissione (fig. 9 – 15)
Pittura murale, cm 97 x 166

Il dipinto purtroppo è molto rovinato: assai lacunoso soprattutto nella zona di destra e privo in molti punti del colore (il Cristo è quasi invisibile). Al centro dell’ampia scena sta il Cristo in croce, circondato da un folto gruppo di Santi a sinistra e da uno più esiguo a destra. Il Cristo morente è connotato da un esile corpicino con i muscoli ben evidenziati e fortemente stilizzati, e la testa riversa sul braccio sinistro. Questo grafismo nell’anatomia si evidenzia anche nel Cristo in Croce tra la Madonna e San Giovanni presente nell’oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo: potremmo essere più o meno nella stessa epoca. Il viso manca completamente ed è presente la sola aureola, il colore del corpo è molto irreale, dato dal verdaccio di preparazione che emerge sotto la cromia.
Il gruppo sulla sinistra è costituito dalle due Marie e da Giovanni che sorreggono la Vergine svenuta: di quest’ultima in realtà resta solamente un volto sfigurato e manca totalmente il corpo. La postura però dei santi attorno e il loro sguardo fisso nel medesimo punto ne testimoniano l’esistenza. La donna che sorregge la Madonna a destra è connotata da un manto roseo, da un profilo tagliente ed è in atteggiamento compassionevole, come si può intuire dalla bocca semiaperta e dal grande occhio sinistro sbarrato.
La donna di sinistra invece presenta un volto meglio delineato, connotato da un naso aquilino, dagli occhi a mandorla e dalla bocca semiaperta. Il viso, privo ormai di colore, è circondato da un manto verde intenso.
San Giovanni (così come vuole l’iconografia della Crocifissione) presenta la tipica capigliatura corta e bionda. Il viso è dato dal solito profilo tagliente e dagli occhi semichiusi, in atteggiamento di forte compassione verso la Vergine.
Dietro questo gruppetto, sull’estrema sinistra della parete è presente l’immagine più significativa: quella della Maddalena con la bocca spalancata e le mani serrate rivolte verso il cielo. È carica di drammaticità: il pittore è attento a sottolineare questa carica emotiva nei particolari, come si vede nel groviglio di dita delle due mani congiunte.
Il gruppo di destra è di più difficile interpretazione, in quanto molto rovinato. Si scorge il volto di una santa dai capelli biondi, mentre le altre immagini sono indescrivibili.
Nella parte superiore infine sono presenti due angioletti con abiti rossastri e mani congiunte: quello di destra è conservato in toto mentre di quello di sinistra sono evidenti solo mani e braccia.
Indubbiamente tale Crocifissione ricalca l’iconografia tradizionale tardo duecentesca: il Cristo magro e stilizzato che divide simmetricamente lo spazio in due, la Vergine che sviene sorretta dalle donne e San Giovanni, la Maddalena che urla il suo dolore. Molto forte è la somiglianza con una Crocifissione presente nell’oratorio Bonacolsi a Mantova; soprattutto per l’immagine del Cristo in Croce con la testa reclinata verso sinistra e con le braccia magre e sottili, datata al primo Trecento e opera di una maestranza legata all’ambiente giottesco dl Giotto padovano.[35]

Controfacciata, parete sinistra
Pittore mantovano della fine del XV secolo
Adorazione dei Magi (?) (fig. 16, 17, 18)
Pittura murale cm 190 x 166

Questo dipinto è collocato su uno strato superiore a quello della Crocifissione, in parte sovrapposto ad essa, nell’angolo superiore della parete. Il suo stato di conservazione è molto mediocre con parti pressoché mancanti. La Vergine è posta di tre quarti ed indossa una veste rosa dall’ampio panneggio falcato, il viso è mancante e restano soltanto l’aureola ed il velo. Il Bambino seduto in grembo è nudo e porta intorno al collo e al polso della mano sinistra una collana e un braccialetto in corallo, chiari simboli cristologici allusivi alla Redenzione; è ben tornito e voluminoso e ha l’indice della mano destra puntato verso sinistra. Le figure sono inquadrate all’interno di una costruzione a capanna dalla chiara struttura prospettica, e considerando la presenza di un Santo in adorazione sulla sinistra, si potrebbe pensare che tale Madonna con Bambino sia in realtà il lacerto di un’Adorazione dei Magi.
Visto lo scorcio in prospettiva della capanna, la Vergine posta di tre quarti ed il Bambino paffuto e tornito, inquadrerei l’opera verso la fine del Quattrocento, quando cioè si era ormai diffuso a Mantova il gusto rinascimentale, grazie all’avvento della signoria di Ludovico III. Quest’ultimo infatti salito al potere nel 1444 (due anni dopo la partenza di Pisanello), accoglie alla sua corte molti artisti aggiornati alla cultura rinascimentale quali Niccolò da Verona. Si veda infatti di quest’ultimo la Madonna in trono tra Santi realizzata per la chiesa di Ognissanti a Mantova: la tornitura e plasticità del Bambino è la medesima di Massimbona.
Le immagini mariane sono piuttosto diffuse nelle chiesette ed oratori dell’alto mantovano. Nel nostro caso è estremamente significativa la somiglianza esistente tra questa Madonna con Bambino e una di quelle presenti nella chiesetta di San Lorenzo a Guidizzolo (a circa sette Km da Massimbona), collocata sulla parete sinistra. In linea generale molti sono gli elementi di contatto tra le due chiese: entrambe sorgono in un territorio rurale, sono accompagnate da una esigua struttura supplementare a fianco, luogo di ristoro e di sussistenza per i sacerdoti ed i monaci, e presentano analogie nell’ impianto architettonico (facciata a capanna, piccola abside, navata unica). Riguardo alle Madonne con Bambino emerge lo stesso utilizzo di simboli cristologici, braccialetto e collanina in corallo, e la stessa nudità del Bambino tra le braccia della Vergine. In generale si nota un panneggio rigido e un tratto grafico arcaico in entrambe. Forse furono realizzate dalla medesima mano o per lo meno dalla stessa bottega.
Se si dà inoltre un rapido sguardo alle chiese rurali del territorio, si noterà come il culto mariano sia molto diffuso e immagini devozionali di Madonne con Bambino simili a quelle di San Pietro in Vincoli e San Lorenzo si sprechino lungo le pareti. Si veda per esempio la Madonna in trono con Bambino sulla parete sinistra della facciata della chiesa di Campibonelli a Mariana Mantovana (a trenta Km da Massimbona), quella nel Romitorio di San Pietro a Redondesco (a quindici Km da Massimbona) sulla parete destra, la Madonna con Bambino sulla parete destra del Santuario della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli (a trenta Km da Massimbona), le due Madonne con Bambino sulla parete sinistra dell’oratorio di San Biagio a Zello (a circa quarantacinque Km da Massimbona). In generale è ovunque vastissima la presenza di Madonne con Bambino nelle chiese campestri mantovane: si vedano per esempio quelle della chiesa della Madonnina di Mezzacampagna di Cereta, o della chiesa di San Giovanni Battista a Marcaria[36].

Parete settentrionale
Pittore mantovano del XV secolo
San Cristoforo (fig. 19, 20)
Pittura murale, cm 154 x 65

Il dipinto presenta uno stato di conservazione piuttosto precario: il Bambino è privo del volto, i colori sono molto sbiaditi, manca tutta l’ambientazione circostante.
Il Santo è posto frontalmente con un viso ovaleggiante, gli occhi tagliati a mandorla e lo sguardo assorto. È avvolto in una veste rosa dal panneggio sottolineato, almeno per quanto si può evincere dal particolare della spalla. Seduto su di essa sta il Bambino mancante del volto e ricoperto da una veste marrone scuro. L’iconografia è quindi piuttosto chiara e riguarda San Cristoforo con Gesù Bambino: il Santo che avrebbe permesso al Bimbo di oltrepassare, attraverso un guado, il fiume. Tale immagine si inquadra perfettamente nel contesto fluviale in cui sorge il nostro oratorio. Non a caso infatti è assai diffusa nelle chiese campestri: si veda per esempio quella nella chiesa della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli, più tarda però rispetto a questa. Il più interessante è il San Cristoforo nella chiesa di Campibonelli a Mariana Mantovana (a circa venti Km da Massimbona): esso è inserito in una composizione assieme a San Sebastiano e San Rocco, e nonostante il cattivo stato di conservazione è facile individuare una certa somiglianza con quello di Massimbona. Siamo sempre nel caso di una mano locale che tenta di applicare espressività, tornitura, eleganza all’opera.
Infine l’immagine del Santo compare più volte anche lungo le pareti della chiesa di San Giovanni Battista nel cimitero di Marcaria.
Risulta molto arduo inquadrare cronologicamente l’opera: in ogni caso visto il tentativo di dare plasticità e volume alle figure e vista la comunanza con alcuni Santi votivi nelle chiesette della zona, lo riterrei Quattrocentesco: si vedano ad esempio quelli nel romitorio di San Pietro a Redondesco e nella chiesa del Cimitero a Marcaria[37]. Anch’essi sono connotati dalla stessa frontalità, dal tentativo di rendere espressivo il volto, dai tratti arcaici e spesso maldestri dell’artista. Inoltre la tipologia del volto del Santo si richiama a quelli affrescati da Michele da Pavia, intorno agli anni venti del Quattrocento, nella chiesa di Santa Maria di Valverde a San Benedetto Po.

Parete settentrionale
Pittore mantovano del XV secolo
Crocifissione (fig. 19, 21)
Pittura murale cm 120 x 118

È un dipinto molto rovinato nel quale l’unica figura chiara è quella di una monaca o di un monaco sulla sinistra, avvolto in un abito scuro e recante in mano un libro. Null’altro si può dire sul dipinto, se non che sembra probabilmente realizzato dalla medesima mano del San Cristoforo.

Parete settentrionale, ordine superiore
Pittore mantovano del XV secolo
Tre Santi (fig.22,23)
Pittura murale, cm 156 x 120

Il dipinto è in uno stato molto precario, rovinatissimo soprattutto ai lati e pieno di lacune. Presenta la scansione molto poco chiara di tre santi: i due laterali sono privi completamente del volto e conservano solo l’aureola, quello di sinistra indossa una veste gialla striata di marrone, quello di destra non ha mantenuto nemmeno la veste. L’unica figura abbastanza chiara è il Santo centrale: trattasi di un Santo Vescovo, con il volto ieratico ed inespressivo, la veste gialla ricoperta da un piviale rosso, le mani giunte che sbucano sotto di essa. Sopra la testa affiora una lacunosa iscrizione di cui si riesce a leggere: TRIM. Tutte e tre le figure sono frontali, piatte e ieratiche, manca volume e tornitura dei corpi soffocati da un rigido panneggio.
Tra il Santo vescovo ed il Santo di destra emerge un quarto volto, come dimostra chiaramente l’analisi degli intonaci, sovrapposto a al primo: esso è ben più chiaro, è il viso di un anziano Santo dalla fronte corrugata e i baffi bianchi. Va considerata una notevole somiglianza con il volto di un Sant’Antonio presente nell’oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo: grande cura ed attenzione ai particolari. Opera senz’altro la medesima mano e dovremmo trovarci nella seconda metà del Quattrocento.
Riguardo invece i tre Santi, considerato il loro stato di conservazione precario, è difficile stabilire una datazione precisa, ma vedrei lo stesso pittore che opera più in basso realizzando il San Cristoforo, forse ancora nella prima metà del Quattrocento (in effetti sembrano poggiare entrambi sullo stesso strato di intonaco, presentano la stessa piattezza delle figure e i volti richiamano quelli di Valverde di Michele di Pavia).

Parete settentrionale, ordine superiore
Pittore mantovano del XV secolo
Madonna in trono con Bambino e Santa (fig. 24, 25)
Pittura murale cm 156 x 100

Il dipinto in stato di conservazione molto precario, è attraversato da una profonda crepa che lo oltrepassa tutto e rende quasi invisibile la Madonna, ovunque ci sono lacerazioni e cadute di colore. Il trono con la Madonna assisa è posto sulla destra: la Vergine è mancante del volto, presenta una veste marrone sontuosamente decorata da bordi d’oro e un panneggio pesante che non lascia trasparire le membra.Con una mano molto affusolata la Madonna sfiora il piedino del Bambino, il quale, indossando una veste verde, indica con l’indice ed il medio la Santa sulla sinistra[38]. Quest’ultima è chiaramente delineata: presenta i capelli raccolti dietro la nuca con un nastro che emerge sulla fronte, il volto ovaleggiante ed inespressivo, la veste verde bordata da ricami d’oro; con la mano sinistra sostiene e mostra un oggetto non chiaramente identificabile, con quella destra apre il palmo verso lo spettatore[39]. Non è chiaro ciò che tiene in mano, sembrerebbe un’asta o una palma del martirio, forse è la spada di Santa Caterina d’Alessandria. Tuttavia l’eleganza e il nastro posto tra i capelli e la fronte richiamerebbe anche la figura di Santa Apollonia.
Anche in questo caso ritengo si possa parlare dello stesso pittore dei Tre Santi che quindi avrebbe operato nel San Cristoforo con Bambino, nella Crocifissione, nei Tre Santi e in questa Madonna con Bambino: non a caso infatti le immagini sono legate tra loro dalla medesima cornice rossiccia.

Parete settentrionale, ordine superiore
Pittore veneto del XVI secolo
Madonna in trono con Bambino (fig. 26, 27)
Pittura murale cm 187 x 126

Collocato al centro della parete sinistra, è uno dei dipinti meglio conservati presenti nella chiesa. Il trono su cui siede la Vergine ha uno schienale rosso decorato da probabili fiori grigi e un seggio beige massiccio e ben proporzionato la cui predella è tipica dell’ambito della pittura veneta. La Vergine indossa un abito azzurro ed è avvolta in un mantello dorato ricco di ricami floreali, caratterizzato da un panneggio abbondantemente falcato che lascia trasparire le forme del corpo. Il capo, ricoperto da velo e circondato da aureola, presenta un volto con lineamenti delicati e sguardo intenso, l’incarnato è roseo ed attentamente curato.
Si noti la grande somiglianza esistente con la Madonna in trono con Bambino presente sulla parete destra laterale dell’oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo: stessa postura del corpo, stesse pieghe del panneggio, stessi caratteri ed espressività del volto. Non si può comunque pensare che operi la stessa mano, vista la maggior arcaicità di tratto grafico di quella di Guidizzolo. Si potrebbero però fare due ipotesi: la presenza di una medesima bottega che opera in entrambi i paesi, solo che a Massimbona lavora il maestro mentre a Guidizzolo un allievo, oppure semplicemente la Madonna di Massimbona è più tarda e l’artista si è ispirato nel realizzarla a quella vista a Guidizzolo.
Nella mano destra la Vergine tiene un libro aperto, simbolo tipico della parola di Dio. Con l’altra mano stringe il Bambino: quest’ultimo si presenta nudo con collanina e braccialetti di corallo (simbolo cristologico della Redenzione), così come già abbiamo visto in precedenza. È da sottolineare anche la forte somiglianza con la Madonna in trono con Bambino presente sulla parete destra del Romitorio di San Pietro a Redondesco, per ciò che riguarda il Bambino: stessa postura, stessa aureola, stessa nudità. Il corpo tornito e volumetrico offre l’immagine veritiera di un bimbo paffuto.
Sotto l’opera corre una lacunosa iscrizione: Tome…..Masimbona sta…. 4 NOV, era probabilmente riferita all’artista (Tome?) che qui aveva operato in data quattro novembre di un non ben precisato anno, oppure potrebbe anche essere riferita ad un eventuale committente.
È evidente la differenza tra questo dipinto e gli altri: sicuramente più tardo, è inquadrabile nel Cinquecento, vista la piena conoscenza plastica e prospettica dell’artista. Penserei quindi ad un pittore aggiornato, anche se non abilissimo, forse di scuola veneta visto l’ampio utilizzo dei rossi e degli azzurri, la particolare predella e la dolcezza del volto della Vergine. Potrebbe essere un pittore veronese, ma anche bresciano o bergamasco (ricordo che nel Cinquecento queste due città erano sotto la giurisdizione di Venezia), che risente infatti delle dolcezze del Pordenone che soggiornò a Mantova, delle tonalità di Lorenzo Lotto, della postura e dei panneggi del Romanino.
Va ricordato infine che sul fianco sinistro, tra questo dipinto e la precedente Madonna con Bambino e Santa, emerge da un intonaco anteriore l’immagine rovinatissima di un San Sebastiano (si intravede il corpo crivellato di frecce legato ad un albero).

Parete settentrionale, ordine superiore (sopra l’apertura dove stava l’antico altare)
Pittore mantovano del XVI secolo
Velo della Veronica e strumenti della Passione (fig. 28, 29)
Pittura murale, cm 90 x 210

Il dipinto è ben conservato, non presenta zone lacunose né martellinature.
Attorno all’apertura dove si trovava uno dei due altari laterali, è dipinta una cornice di girali vegetali, al centro della quale è posto il velo della Veronica.[40] Esso si presenta secondo i canoni tradizionali: panno bianco su cui si staglia il volto di Cristo sofferente (zigomi sporgenti, barba e capelli lunghi, occhi semichiusi, gocce di sangue che rigano il viso). Dietro compare una grande Croce obliqua, sapientemente resa dal punto di vista prospettico, e tra le volute della decorazione altri strumenti della Passione di Cristo: lame, chiodi, martello.
L’opera è probabilmente databile alla seconda metà del Cinquecento.

Parete sinistra del fronte del presbiterio
Pittore mantovano del XIV secolo
Tre Santi (fig. 29 – 32)
Pittura murale, cm 159 x 139

Il dipinto è molto rovinato nella parte inferiore, mentre buona è la sua conservazione nella zona superiore. Cominciando da sinistra, è presente una Santa molto elegante, con abito verde ricoperto da un manto rosso bordato d’oro, porta un copricapo con perle e un bracciale sulla mano destra. Con la mano sinistra invece indica chiaramente il numero cinque, simbolo dei cinque sensi, ma anche delle cinque ferite di Cristo. Ad un primo acchito sembrerebbe trattarsi, vista la presenza della corona, della sua eleganza e della sua tipologia uguale alla Santa della Madonna in trono con Bambino e Santa della parete sinistra, di Santa Caterina d’Alessandria, ma l’iscrizione SU….ATELI presente smentisce tale ipotesi pur non rivelandoci comunque la vera identità della Santa.
Il secondo Santo è uno dei più pregevoli presenti nell’oratorio per la peculiarità e la raffinatezza con cui è stato realizzato. Si tratta di un Santo Vescovo e, come indica l’iscrizione qui molto più chiara (S.PETRUS), è San Pietro; caratterizzato da un volto significativamente descritto da zigomi sottolineati, sguardo serioso, bocca serrata, orecchie dettagliatamente realizzate. La mitra ed il piviale hanno una elegante decorazione in oro con disegni. Manca purtroppo gran parte del corpo, e si possono solo intravedere le mani incrociate poste sul ventre.
Il terzo Santo è sicuramente un frate, vista l’acconciatura dei capelli e il lungo saio che indossa, marrone chiaro e dal rigido panneggio. Il volto è barbuto ma non emergono chiari segni distintivi che possano stabilire di che Santo si tratti. Un lacerto d’iscrizione: SA… TONIUS; sembrerebbe suggerire un Sant’Antonio: in tal caso però si tratterebbe di Sant’Antonio da Padova, spesso rappresentato come un fraticello, e non Sant’Antonio Abate. Con la mano sinistra indica il numero tre, che ha una simbologia molto vasta ma in questo caso, vista la presenza a fianco di San Pietro, potrebbe indicare i tre rinnegamenti di Pietro.
Un Santo assai simile a questo è il San Bernardino presente nell’oratorio di San Biagio a Zello, che affianca una Madonna con Bambino e, nonostante il suo precario stato di conservazione, risulta simile a quello di Massimbona. Così come del resto si riscontra pure una forte somiglianza con il San Bernardino presente nel romitorio di San Pietro a Redondesco, dove è collocato accanto ad un Santo vescovo.
La frontalità, il grafismo e la tipologia dei volti dei due Santi laterali inquadrerebbero l’opera attorno al primo Quattrocento (in assonanza con i volti degli altri Santi Quattrocenteschi dipinti negli oratori circostanti). La notevole somiglianza però del volto del Santo Vescovo con quello di un San Cristoforo presente nell’oratorio Bonacolsi (stesso sguardo, stesse orecchie, stessa barba), retrodaterebbe l’opera al Trecento. Quest’ultima è sicuramente l’ipotesi migliore.

Parete meridionale
Pittore mantovano del XIV secolo
Madonna in trono con Bambino tra quattro Santi (fig. 36 – 42)
Pittura murale cm 150 x 284

Purtroppo il dipinto non è in buone condizioni, in quanto è privo di alcune parti e tagliato nella zona superiore a causa dell’inserimento successivo di una finestra, probabilmente costruita nel Novecento, per dar maggior respiro alla chiesa, senza sapere della presenza di dipinti visto che la parete era interamente intonacata; molte sono anche le martellinature che lo caratterizzano un po’ ovunque.
Il primo Santo partendo da sinistra è privo della parte superiore del corpo: di esso resta una veste rosea con ricami a balze dorate e si intravedono le braccia. È impossibile stabilire di che Santo si tratti; oltretutto è l’unico ad avere colori che staccano nettamente con il resto del dipinto, per cui verrebbe da ipotizzare l’appartenenza ad un’altra opera, ma l’analisi degli intonaci ha dimostrato che tutte quante le figure si trovano sullo stesso strato di intonaco. Per cui probabilmente questo Santo aveva una valenza particolare, oggi impossibile da individuare.
Il secondo Santo è l’unico visibile per intero: presenta un viso ricoperto da barba, baffi e capelli bianchi, ha un volto scavato e dall’espressione cupa, quasi sofferente. Indossa un abito rossastro ricoperto da una toga verde. Significativa è l’attenzione data dall’artista alle particolarità del volto e l’uso di un sapiente panneggio che lascia trasparire la presenza del braccio destro pur non vedendosi (sotto la toga verde si nota un rigonfiamento). Dietro la testa del Santo c’è una non ben identificabile campitura rettangolare azzurra, che sembrerebbe quasi rappresentare un pezzo di cielo (sopra la testa del Santo affiorano tre lettere appartenenti ad una iscrizione rovinatissima: …NOI…).
Al centro sta la Madonna con Bambino, alla quale manca completamente il volto. Siede su un trono marmoreo ed indossa una veste verde ricoperta da un mantello rossastro. Con la mano sinistra tiene la manina del Bambino, il quale è molto piccolo, direi quasi sproporzionato al corpo della Vergine. Indossa un abito verde ed ha lo sguardo rivolto verso la madre.
Il terzo Santo è chiaramente identificabile in Sant’Antonio: si veda infatti il libro nella mano destra, la campanella (utilizzata per spaventare i demoni) in quella sinistra e il maialino ai piedi (Sant’Antonio è protettore degli animali domestici). Presenta un abito bianco striato di rosso e ricoperto da un saio rossastro. È privo totalmente del volto, causa l’apertura della finestra.
La figura di tale Santo è giustificabile all’interno di questa chiesa in quanto, essendo essa collocata in campagna, si delegava a lui la facoltà di proteggere gli animali della zona, dedicandogli una pittura votiva.[41] Infatti è un’immagine molto diffusa nelle chiese ed oratori campestri del territorio: si veda quella dedicata a San Giovanni Battista del cimitero di Marcaria, in cui Sant’Antonio compare ben due volte. Nella prima il Santo si presenta singolarmente come vecchio con la barba lunga, indossa il saio e porta un bastone a cui ha appesa la campanella, ai suoi piedi sta il porco appena visibile. Nella mano sinistra tiene il fuoco, altro simbolo tipico del Santo (è il fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio, malattia quest’ultima contro cui veniva invocato).
Nel secondo caso il Santo fa parte di una composizione: Madonna in trono con Bambino, San Giovanni Battista e Sant’Antonio Abate. Qui è rappresentato con un volto più giovanile, indossa sempre il saio e porta solo il bastone da eremita. In entrambi i casi si tratta di dipinti molto più tardi rispetto a quelli di San Pietro in Vincoli (seconda metà del Cinquecento circa).
L’immagine del Santo è presente anche nell’oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo: il Santo è qui anziano, porta nella mano sinistra il fuoco e in quella di destra il bastone, ai suoi piedi sta il maialino. È un’opera di pregevole fattura, dal viso ben disegnato, curato nei particolari e proporzionato rispetto al corpo, che mette in evidenza la mano di un pittore assai abile.
Infine un altro Sant’Antonio (fig.115) è presente nella chiesa campestre della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli (dista circa trenta Km da Massimbona). Anche qui la tipologia è la stessa: fuoco nella mano sinistra, bastone nella destra, maialino ai piedi. Si tratta di un dipinto più tardo rispetto a quello di San Pietro in Vincoli, con molti punti in comune con quello in San Lorenzo.
L’ultimo Santo è anch’esso privo del volto, indossa un abito verde ricoperto da un manto rossastro, nella mano destra regge un libro mentre nella sinistra presumibilmente un bastone. Potrebbe trattarsi di San Giacomo, la cui presenza sarebbe giustificata dal fatto che egli è protettore dei pellegrini, e questa era una chiesa molto frequentata da viandanti.
Va ricordato infine che, su una parte di intonaco successivo collocato sotto al dipinto, sta un’iscrizione: BATISTA BATAIA DEE E MAESTATES. Intorno ad essa però non vi sta nient’altro per cui non facile stabilire a cosa si riferisse.
Gli affreschi sono databili nel corso del Trecento, vista la frontalità dei Santi, la loro leggerezza ed inconsistenza volumetrica, la tipologia arcaica della Madonna con Bambino, la presenza di abiti molto accollati. Nella postura degli arti superiori, nella larghezza delle spalle, nel profilo del secondo Santo, c’è una certa somiglianza con la Morte di San Lodovico D’Angiò, in San Francesco a Mantova, realizzata nella prima metà del Trecento da Serafino de Serafini.

Contofacciata, parete destra
Pittore mantovano del XIII secolo
Due Santi (fig.42,43)
Pittura murale cm 71 x 64

Il dipinto è molto rovinato, presenta il busto di un Santo che mostra sul capo la tipica chierica da diacono ed è circondato da un’aureola dorata. Il volto è chiaramente delineato, con occhi allungati e sguardo ieratico. Indossa un elegante abito rossastro con bordature d’oro, regge nella mano sinistra un libro e nella destra probabilmente la palma del martirio (non ben visibile perché in questo punto il dipinto è assai rovinato). L’identificazione è molto ardua: la Miyata[42] ci parla di un San Lorenzo.Mi sembra tuttavia un’interpretazione un po’ azzardata in quanto, visti i pochi elementi di riconoscimento a disposizione, potrebbe essere qualsiasi Santo Diacono.
Alla sua sinistra poi compare il profilo di un altro Santo, quasi totalmente perduto.
Ora l’arcaicità del tratto pittorico, la frontalità, la piattezza e la ieraticità del corpo, l’abito riccamente decorato, muovono verso una datazione arcaica rispetto ai dipinti precedenti, ancora legata al XIII secolo. Il volto del Santo richiama infatti quelli dell’Ultima Cena, in Santa Maria del Gradaro a Mantova.

[1] Con l’espressione in Vincoli si intende in catene: le presunte reliquie consistenti nelle catene di Pietro furono assai venerate nel corso del medioevo.
[2] Cavaion Veronese è un comune in provincia di Verona.
[3] Il colore dell’intonaco è stato concordato con la Soprintendenza per i beni architettonici ed ambientali di Brescia durante i restauri dell’anno 2000. Informazione reperita presso lo Studio Progetto 3 dell’architetto Mauro Nardi che si occupa del restauro.
[4] I marchesi Cavriani furono proprietari della chiesa e del territorio dal 1732 sino allo scadere del Settecento.
[5] Gli interventi attuati in quest’anno fanno riferimento ad informazioni reperite oralmente.
[6] A. Bertolotti, I comuni e le parrocchie della provincia mantovana, Mantova 1893.
[7] Milano, Archivio di Stato, Diplomatico – Matilde, estratto cartaceo 1328 (sottola data 1107).
[8] Archivio Diocesano di Mantova, Visita pastorale del 5 Ottobre 1544,
[9] Archivio Diocesano di Mantova, Visita pastorale del 1 Ottobre 1547: Provideatur de assidibus etc. causa suffulciendi tectum ecclesiae.
[10] Archivio Diocesano di Mantova, Visita pastorale del 1 Ottobre 1547.: Provideatur de tegulis 200 pro tegendo ecclesiam et donum.
[11] Archivio Diocesano di Mantova,Visita pastorale del 1575.
[12] Archivio Diocesano di Mantova, Visita pastorale del 1674: Mandavit taluni ansoni para icona altari maiory…
[13]Archivio Diocesano di Mantova,Visita pastorale del 15 Maggio 1725. Visit altar maius sifficienseis provisu,m…
[14] Archivio di Stato di Mantova, disegno altar maggiore del XVIII sec. Non datato
[15] Archivio Diocesano di Mantova, Visita pastorale del 15 Maggio del 1725: Fieri janua nova…
[16] Archivio di Stato di Mantova, Catasto Teresiano 1770, disegno del 1834; Catasto lombardo-veneto del 1860.
[17] Archivio Parrocchiale di Goito, B 90. Estratto conto di don G. Ghidoni Priore per Scardeoni Cesare per lavori eseguiti alla chiesetta di Massimbona, 15 Novembre 1941. (Per demolire due altari laterali, chiudere la porta del campanile e del casante…).
[18] Archivio Diocesano di Mantova, Visita pastorale del 15 Maggio del 1725: Eremite nero qui aspicit est Joseph Paierna
[19] Archivio Diocesano di Mantova, visita pastorale del 1674: Inaebit ibi concedi Ciminterium…
[20] P. Torelli,Un comune cittadino in un territorio ad economia agricola,Mantova 1930 (a sua volta ripreso da documenti miscellanei dell’Archivio di Goito).
[21] Archivio Parrocchiale Goito, B 90.Estratto conto di don G.Ghidoni per Scardeoni Cesare per lavori eseguiti nella chiesetta di Massimbona, 15 Novembre 1941.
[22] Secondo informazioni orali reperite presso gli abitanti del luogo.
[23] C.Marchioro, Le chiese goitesi, storia arte e tesori, Mantova 1990, p. 92.
[24] Visita Pastorale del 1575: ordinavit icona una in qua impinguatur imago S.Pietri…
[25] Faccio riferimento agli studi della S.Miyata e della M.R Palvarini Gobio Casali, da me più volte citati.
[26] Un esauriente analisi di tale edificio è presente in G.B. Intra, Il bosco della Fontana presso Mantova e le sue vicende storiche, Mantova 1887.
[27] Si veda, Archivio di Stato di Mantova, Archivio Cavriani, Inventario delli mobili e altre robbe che si trovano nelle case di Mantova, Sacchetta e altri lochi, B 68.
[28] Precisi riscontri documentari di ciò si trovano in R. Soprani, Le vite de pittori, scultori ed architetti genovesi, Genova 1674; R. Soprani – C. Ratti, Le vite de pittori, scultori ed architetti genovesi, Genova 1768, vol I p.234.
[29] VisitaPastorale del 15 Maggio 1725.
[30] Archivio di Stato di Mantova, Archivio Cavriani, Inventario dei mobili ed altre robe che si trovano nelle case di Mantova, Sacchetta ed altri lochi 1726 II tomo busta 68.
[31] Il restauro è stato effettuato dalla Cascina bosco di S.Martino Gusnago di Ceresara (Mantova) 1994.
[32] Le due iscrizioni così dicono: la prima Costruito il 1714; la seconda Ridotto da Biscardi Elio 25 – 7 1941.
[33] Tale supposizione era già stata avanzata dalla S. Miyata, Tra fermento architettonico dell’edilizia religiosa e soppressioni ecclesiastiche nel ‘700 mantovano: il caso della basilica di San Pietro in Goito,Tesi di Laurea, Università degli Studi di Parma, 1999/2000, p.207.
[34] M. Castagna – V. Predari, Stemmario Mantovano, vol. I, Montichiari 1997, p 229.
[35] Per un attento studio sulle opere presenti nell’oratorio Bonaccolsi, assai esaustivo è il testo di: U.Bazzotti, Indizii di castigato disegno di vivaci colori. Gli affreschi trecenteschi della cappella Bonaccolsi. Catalogo della mostra giugno luglio 1992. Mantova 1992.
[36]Attualmente la chiesa è in fase di restauro per cui non mi è stato possibile effettuare fotografie, si può far comunque riferimento a quelle presenti in, C. Chizzoni, Marcaria, frammenti di storia medievale, Marcaria 1987 p.p 72,73.
[37] E.Marani – C. Perina, Mantova le arti, Mantova 1963 II vol. p.19.
[38] Il numero indicato dalle dita è chiaramente il due, simbolo della natura duale cioè umana e divina, di Cristo.
[39]Il numero indicato dalle dita è chiaramente il cinque, simbolo delle cinque ferite di Cristo.
[40] La Veronica è la vera immagine di Cristo. Veronica era il nome dato anticamente ad una donna, non chiaramente identificata, per la quale Gesù avrebbe impresso la propria immagine su un lenzuolo cosicché essa potesse sentirlo vicino anche quando era lontano. Secondo altri invece sarebbe stata impressa durante l’agonia di sangue al Getsemani o su di un panno di una donna che asciugò il volto di Gesù sulla via del Calvario.
[41] Il culto di Sant’Antonio è tutt’oggi molto sentito in territorio mantovano, tant’è che ancora ogni anno gli agricoltori festeggiano la ricorrenza il 17 di Gennaio e fino a non molti anni fa venivano benedetti gli animali.Con loro festeggiano anche i fabbri in quanto non lavorano per non accendere il fuoco di cui Sant’Antonio era creduto protettore avendolo rapito al demonio per darlo agli uomini.
[42] S.Miyata, Tra fermento architettonico dell’edilizia religiosa e soppressioni ecclesiastiche nel’700 nel mantovano: il caso della basilica di San Pietro in Goito, Tesi di laurea, Università degli Studi di Parma, A.A. 1999/2000, p.203. 

Capitolo III

3. LA PITTURA NEL TERRITORIO MANTOVANO TRA XIV E XVI SECOLO

3.1.CARATTERI COMUNI DELLE CHIESE

Dando un rapido sguardo al territorio della provincia mantovana, in particolare a tutta la campagna padana, si nota come realtà quali l’oratorio di San Pietro in Vincoli a Massimbona siano molto diffuse. Sparse per la pianura si trovano infatti molte chiese campestri, spesso assai lontane tra loro a ridosso dei confini di Mantova con altre province (ad esempio La Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli sul confine con la provincia bresciana, la SS. Trinità ad Olfino sul confine con la provincia veronese, San Rocco a Ostiano sul confine con la provincia cremonese, San Biagio a Zello sul confine con la provincia ferrarese).
Nella mia analisi del territorio, in relazione alle testimonianze pittoriche medioevali, ho considerato come esempi significativi questa serie di chiese:
I. Madonnina di Mezzacampagna a Cereta
II. Romitorio di San Pietro a Redondesco
III. S.Vergine Annunciata a Campi Bonelli
IV. San Lorenzo a Guidizzolo
V. Santissima Trinità ad Olfino
VI. Madonna della Malongola a Fontanella Grazioli
VII. San Biagio in Zello
Ad esse andrebbero aggiunte, per esigui lacerti staccati da queste, l’estinta chiesa di San Erasmo a Asola (al suo posto fu creato un teatro, in cui sono conservati i lacerti staccati)[1] e la chiesa di San Michele a Castelgoffredo, edificio settecentesco costruito modificando la preesistente chiesa di San Rocco[2].
È facile notare come ognuno di questi edifici, siano essi oratori, sacelli, romitori, chiesette in genere, presentino quasi sempre i medesimi caratteri architettonici: linee semplici e raccolte delineano strutture costituite da un’unica navata, facciata a capanna, soffitto a capriate, pavimento in cotto, ampio arco a tutto sesto che separa abside e presbiterio dal resto della chiesa. In molti casi inoltre è presente una struttura complementare a fianco, semplice abitazione per eremiti o pellegrini di passaggio.
Anche i materiali costruttivi per lo più son sempre gli stessi: sassi alluvionali, facilmente reperibili nelle campagne circostanti (soprattutto ai piedi delle colline moreniche dove si trova anche Massimbona), e parti in cotto, spesso tenuti insieme da una malta di calce e sabbia sempre recuperata nelle cave locali.
Anche da un punto di vista logistico ci sono molti richiami tra le chiese: si trovano infatti per la maggior parte in frazioni (vedi Massimbona, Olfino, Fontanella Grazioli, Cereta, Zello), o in piccole borgate come Campi Bonelli, Marcaria, Redondesco, totalmente immerse in un paesaggio boschivo attraversato da stradine tortuose e spesso accompagnato da corsi d’acqua, da fiumi importanti come il Mincio per Massimbona a semplici fossati come il Tartarello a Campi Bonelli.
Infine anche la loro origine è spesso simile: si tratta di chiese edificate o comunque gestite da ordini monastici (si vedano i benedettini a Massimbona, gli Eremiti di Santa Maria Gonzaga e poi gli Olivetani a Guidizzolo), divenute in seguito proprietà private di importanti famiglie legate ai Gonzaga (Custoza, Cavriani, Rizzini, Diana, Zello, ecc.). Quasi sempre le cerimonie di culto venivano praticate in esse con scarsa regolarità in occasione di ricorrenze particolari (feste del Santo titolare della chiesa, visita del vescovo, cerimonie funebri).
Passando ora ad osservare le testimonianze pittoriche che tali chiese conservano, sarà necessario spiegare come ad un primo acchito esse si presentino molto simili tra loro. Girando infatti la campagna mantovana, chiesa dopo chiesa, ci si trova sempre di fronte a pareti cariche di dipinti sovrapposti tra loro, spesso poveri frammenti di colore mescolati alla calce, che ad un certo punto li ricoprì completamente. Immagini inserite in riquadri accostati gli uni agli altri, in cattivo stato di conservazione, con Santi senza gambe, Madonne senza volti, Bambini senza corpi, il più delle volte segnati da innumerevoli martellate servite per dare una miglior aderenza al nuovo strato di calce che veniva posto sopra i dipinti.
Essi hanno prevalentemente carattere votivo, essendo stati dedicati dai vari committenti abitanti della zona all’uno o all’altro Santo che li avevano preservati ora da malattie, ora da vaste epidemie e carestie, ora da alluvioni.[3] Erano quindi Santi a cui si dava la valenza di taumaturghi e guaritori. Non a caso infatti si ripetono anche più volte all’interno della medesima chiesa: San Cristoforo, invocato contro l’esondazione dei fiumi, oltre che protettore dei viandanti e dei pellegrini; Sant’Antonio, invocato come protettore degli animali domestici e contro il malanno detto fuoco di Sant’Antonio[4]; San Sebastiano, invocato contro la peste; San Bernardino da Siena, che aveva dato alla dottrina cattolica un’interpretazione popolare (e quindi apprezzabile dagli abitanti delle campagne); Santa Caterina, invocata come protettrice delle donne da marito, ma soprattutto dei mugnai[5]; e San Rocco, invocato come protettore dalle epidemie.
Però molto forte era soprattutto il culto mariano: non a caso infatti molte di queste chiesette sono dedicate alla Vergine (Madonnina di Mezzacampagna di Cereta, S.Maria Annunciata di Campi Bonelli, Madonna della Malongola a Fontanella Grazioli) e in ognuna di esse sono presenti almeno tre o quattro Madonne in trono con Bambino, che quasi sempre presentano i simboli cristologici della Redenzione. Abbastanza diffusa è anche l’immagine della Madonna del latte, che veniva invocata per la fertilità nella donna.
Anche da un punto di vista stilistico, come poi vedremo meglio in dettaglio, i dipinti sono molto simili. Sono opere di maestranze locali o girovaghe, a volte rozze, altre più raffinate e delicate, che tentano di divulgare le conoscenze direttamente o indirettamente apprese nei centri cittadini. Ciò che è significativo di questi dipinti quindi, non è tanto la qualità (piuttosto scarsa), quanto la diffusione nel territorio in vari edifici, la possibilità di individuare maestranze comuni e soprattutto il carattere pressoché incontaminato che essi presentano, costituendo quindi importanti testimonianze di arte medioevale. 

2.2. LA CHIESETTA DI MEZZACAMPAGNA

Per la maggior parte i dipinti conservati nelle varie chiese ed oratori appartengono al XV e XVI secolo, ma si trova anche qualche lacerto trecentesco che ora andrò ad analizzare. Va detto però che molto spesso è facile cadere in errore, datando cioè dipinti quattrocenteschi al XIV secolo, in quanto il tratto arcaizzante e semplice della maestranza locale era spesso arretrato e non in linea con le nuove tendenze del tempo.
Significativo esempio è la chiesetta posta a circa sette Km da Massimbona in località detta Cereta, appartenente al comune di Volta Mantovana[6], è detta della Madonnina di Mezzacampagna. Non esiste tuttora una bibliografia specifica relativa ad essa.
L’edificio, di impianto romanico, ricorda moltissimo quello di San Pietro in Vincoli: esternamente si presenta con facciata a capanna, nella quale si nota un sottile segno di un’ antica architrave divelta e l’inserimento di un successivo rosone, con un piccolo campanile laterale, un portone ed un tetto che furono sicuramente rifatti nel secolo scorso. L’interno è a navata unica, con due finestre laterali che danno maggior respiro all’ambiente, una copertura a capriate ed una pavimentazione recenti, sistemate nel corso del Novecento, un’ abside ed un presbiterio suddiviso dal resto della chiesa da un arco a tutto sesto come a Massimbona. Esistevano probabilmente in origine due aperture laterali in quanto ne restano evidenti segni. Riguardo agli intonaci, esternamente l’oratorio presenta un colore giallo chiaro, ben conservato in facciata, più consumato invece lateralmente, probabilmente steso non prima della seconda metà del Novecento. Internamente la situazione è piuttosto precaria, in quanto le pareti sono coperte da uno strato di intonaco che in alcuni punti inizia a cadere ed emergono dipinti parietali rovinati dalle tipiche martellinature date in precedenza per una miglior aderenza di esso.
La dedicazione della chiesa alla Vergine ovviamente si inquadra perfettamente nel panorama di forte diffusione del culto mariano, tipico di tutte le zone campestri.
Riguardo ai dipinti esistenti in questa chiesa, suggerirei l’ipotesi di un’unica maestranza trecentesca che opera su entrambe le pareti, realizzando quindi la Madonna in trono con Bambino sul lato destro, la Crocifissione e l’Ultima Cena sul lato sinistro. Tutte e tre queste opere infatti poggiano sullo stesso strato di intonaco e presentano il medesimo tratto arcaizzante, la sproporzione degli arti, la scarsa cura nella resa dei volti.
La Madonna in trono con Bambino, collocata sulla parete laterale destra in basso, è in un pessimo stato di conservazione, molto rovinata soprattutto nella zona inferiore. Mostra un trono dal seggio massiccio, con tentativo di tridimensionalità, e schienale a scudi. Tale decorazione risulta molto significativa in quanto è identica a quella di un’altra Madonna con Bambino nella chiesa di San Biagio a Zello, certamente non opera dello stesso artista, ma testimonianza della presenza di modelli pittorici che circolavano uguali nelle varie botteghe. La Vergine è massiccia e robusta, indossa un abito marrone ricoperto da un velo dal colore consumato, il volto è appena accennato, con la mano sinistra regge il Bambino posto frontalmente in atteggiamento rigido ed innaturale. Quest’ultimo indossa una veste marrone chiaro, decorata con motivi floreali; forte è la sproporzione tra la testa piccola ed il corpo massiccio.
Il tentativo di porre il seggio in prospettiva e la figura massiccia della Madonna sono senz’altro opera di un pittore che conosce le innovazioni giottesche, testimoniate nel territorio mantovano da artisti quale il Maestro operante nell’oratorio dei Bonacolsi, a Palazzo Bonacolsi (si veda in particolare la Madonna in trono con Bambino presente nella raffigurazione di Gesù tra i dottori)[7]. Tuttavia la frontalità, l’innaturalezza, il tratto incerto del disegno
(si veda la grossolanità con cui sono realizzate le mani della Vergine) lo identificano come un artista periferico dalle non grandi qualità.
La Crocifissione, collocata in basso sulla parete destra, è molto rovinata e lacunosa in vari punti: la zona destra è completamente mancante, mentre a sinistra emerge il corpo di una Santa vestita di rosa con una mano rivolta verso la croce (probabilmente la Maddalena). Il Cristo presenta un’anatomia molto evidenziata, la testa circondata da lunghi capelli e inclinata leggermente, lo sguardo dimesso.
Potremmo dire che si tratta di un dipinto contemporaneo alla Crocifissione  di Massimbona (inizi Trecento), ma a Cereta opera un artista molto più arretrato, che non ha assolutamente presente il modello di Crocifissione adottato in San Pietro in Vincoli, cioè quello presente nell’oratorio Bonacolsi.
L’Ultima Cena, collocata a fianco della Crocifissione, è molto rovinata da martellinature, ma nonostante questo presenta elementi interessanti. Inanzitutto essa è sovrapposta ad un altro dipinto: da quanto si può evincere si tratta di una Madonna in trono con Bambino, della quale si intravede il trono massiccio con predella alla veneta e la figura corposa della Vergine.
La rappresentazione di un cenacolo è piuttosto inusuale in edifici di questo tipo: forse fu voluta da qualche committente del luogo in occasione di una Pasqua particolare o magari faceva parte di una narrazione più ampia riguardante la Passione di Cristo (per questo bisognerebbe vedere cosa sta sotto l’intonaco circostante). Il pittore opera in maniera arcaica ed elementare: gli apostoli sono tutti uguali tra loro, figurine esili ed impacciate, dai volti ormai sbiaditi. Piuttosto ricca è invece la caratterizzazione del cibo sulla tavola imbandita, ma quest’ultima risulta notevolmente sproporzionata.
Concludendo, i tre dipinti sono senz’altro opera di una locale maestranza che aveva presente il modello della non lontana cappella Bonacolsi, attiva quindi nella seconda metà del Trecento, che cerca di adeguarsi alle innovazioni giottesche, ma dalle esigue capacità.
Più tarda, come rivela anche l’analisi degli intonaci, è la Madonna in trono con Bambino collocata al fianco della precedente Madonna trecentesca, sulla parete destra. Essa, rispetto agli altri dipinti è ben conservata; notevole è la fattura del trono riccamente decorato con elementi architettonici (cuspidi e piccole guglie) molto elaborati e dettagliati. La Vergine indossa un abito rosato ricoperto da un manto marrone ricco di pieghe e svolazzi. Il viso ovaleggiante è paffuto e dall’incarnato roseo, la mano destra che rivolge verso il pubblico è molto affusolata. Il Bambino, vestito di verde, mostra delle gambe robuste e tornite, ma ha piedi e mani sproporzionati al corpo.
Ai piedi dell’altare lateralmente stanno due Santi in miniatura. Quello di destra è probabilmente San Bernardino, visto l’aspetto anziano, il libro che tiene in mano e mostra al pubblico, e il sole raggiante sopra di lui.
Il Santo di sinistra invece è San Leonardo, chiaramente identificabile dalle manette che tiene nella mano destra e la palma nella sinistra. Indossa un abito rosso e porta la pettinatura da chierico. Anche nei Santi c’è una forte sproporzione degli arti.
È un’opera probabilmente di metà Quattrocento o poco oltre, in quanto mostra un pittore già abile nella realizzazione dei volumi e delle prospettive, ma in alcuni punti ancora impacciato e soprattutto ancora fortemente legato alla tradizione tardo – gotica. C’è inoltre una fortissima componente devozionale in quest’opera, data soprattutto dalla rappresentazione in miniatura dei Santi.
Medesimo interesse per l’elaborazione e l’eleganza gotica, lo stesso artista manifesta in un’altra Madonna in trono con Bambino, di fianco alla precedente: resta solo un esiguo lacerto (struttura del trono e parte dei volti) che evidenzia un eguale interesse decorativo per il trono, ricco di cuspidi, colonnine, elementi vegetali e geometrizzanti.
Concludendo quindi si può dire che furono attive in questa chiesa almeno due maestranze, una trecentesca e una quattrocentesca. 

3.3. L’ORATORIO DI SAN LORENZO

Tale edificio sorge nel territorio di Guidizzolo[8] e dista circa sette Km da Massimbona. È immerso in un paesaggio boschivo sulla strada che da Guidizzolo porta alla vicina frazione di Birbesi, tant’è che spesso viene anche ricordata come chiesa di San Lorenzo in bosco.[9]
Acquistata nel 1995 dal Comune di Guidizzolo dai signori Diana, risulta sconsacrata, per cui anche il suo stato di conservazione non è dei migliori. È costruita su un rialzo artificiale del terreno, forse un’antica terramara[10] e presenta i medesimi caratteri degli altri edifici visti sinora: semplice facciata a capanna, campaniletto pensile a lato, struttura complementare a fianco. Il portale è a sesto acuto, così come quello presente sul lato sinistro; sopra di esso sta un rosone inserito tra due finestre, frutto di modifiche attuate in età gotica, su un edificio di epoca romanica. All’interno abbiamo la solita struttura ad aula unica, il grande arco poggiante direttamente sul pavimento che divide il presbiterio dal resto della chiesa, la copertura a capriate, il pavimento in cotto. Gli intonaci esterni sono bianchi e risalgono probabilmente al XX secolo, mentre internamente svariati riquadri a fresco decorano le pareti.
Le prime notizie inerenti all’oratorio risalgono al Quattrocento, quando giunsero i Preti Eremiti della Congregazione di Santa Maria di Gonzaga[11]. In seguito alla decadenza di tale ordine, nella seconda metà del Cinquecento passò sotto il controllo dei Padri Olivetani, che dal 1508 gestivano già la parrocchia di Guidizzolo. Quando poi, a partire dalla fine del Settecento le leggi austriache vollero la soppressione di tutti gli ordini religiosi, il controllo dell’oratorio andò ai Conti Rizzini e da essi ai Diana.
Gli affreschi sono i più interessanti di tutti quelli esaminati nel territorio, in quanto i più vicini a quelli di San Pietro in Vincoli a Massimbona. Essi furono datati da Alessandro Dal Prato[12] alla fine del XV secolo e alla prima metà del XVI. Trovandosi a cavallo tra due secoli spessissimo è difficile capire se siano ancora quattrocenteschi o già cinquecenteschi. Inoltre il loro stato di conservazione è assai precario e si sta purtroppo avviando ad uno stato di deperimento irreversibile. È molto difficile quindi ricavare un preciso ordine cronologico, mentre risulta più semplice individuare le diverse mani che vi hanno operato.
Sicuramente i più antichi sono i dipinti collocati nella parte bassa della parete destra e sulla fronte dell’arcone.
Partendo da destra, senz’altro quattrocenteschi e di buona fattura sono il San Sebastiano e San Rocco, in discreto stato di conservazione. Riguardo al primo, con corpo crivellato di frecce, assai curata è l’anatomia del torso e delle gambe, la figura è massiccia e volumetrica, ma appare un po’ troppo rigida. Reso sapientemente è il panneggio che copre l’intimità del Santo. Al viso è stata rivolta meno attenzione, per cui appare più rozzo.
San Rocco, identificabile dal bastone e dalla piaga sulla coscia, indossa abiti che ricalcano la moda di fine Quattrocento: stretti pantaloni bianchi con camicia viola legata in vita a gonnellino. Notevole è l’attenzione data ai particolari: si veda la resa degli stivali, del copricapo e della borraccia. Non deve ovviamente stupire la rappresentazione unita di questi due Santi, in quanto venivano visti come protettori contro la peste.
Accanto a questo, sta un dipinto suddiviso in quattro riquadri con: San Sebastiano, San Rocco e due Madonne con Bambino: nonostante siano figure molto rovinate e manchi in alcuni punti il colore, emerge la stessa volumetria, tornitura ed attenzione ai particolari del dipinto precedente.
Legati alla stessa mano considererei anche i due affreschi successivi: San Lorenzo e San Francesco che riceve le stigmate. Il primo, titolare dell’oratorio, è presente solo qui all’interno della chiesa ed è molto rovinato da innumerevoli graffiature. È riconoscibile dalla tipica chierica da diacono e dal libro nella mano destra; indossa un lungo abito bianco ricoperto da un manto molto decorato a motivi vegetali. La squadratura del volto e i suoi lineamenti richiamano quelli di alcune teste presenti a Massimbona (per esempio i tre Santi che stanno in controfacciata).
Il secondo è un dipinto rovinatissimo: si riesce comunque ad intravedere un tentativo di ambientazione paesaggistica sullo sfondo, la figura del Santo in primo piano, con grandi mani poste in evidenza per mostrare le stigmate, e la figura di un secondo monaco sullo sfondo, probabilmente Frate Leone.
In tutti e quattro i dipinti, vedrei attiva la medesima maestranza. In effetti anche una cornice verde corre intorno ad essi, si riscontra l’uso ripetuto di aranci, gialli e rossi, le figure sono ben delineate seppure il tratto pittorico appaia un po’ rigido ed insicuro, i volti sono piccoli, appuntiti, con grandi occhi ovaleggianti. I lineamenti richiamano quelli presenti nei visi realizzati da Serafino de Serafini nella Morte di San Lodovico D’Angiò, in San Francesco a Mantova.
Proseguendo lungo la parete sembra essere attiva una seconda maestranza, che realizzerebbe altri sette dipinti. Prima però di passare all’analisi di essi, va considerata l’immagine di una Madonna in trono con Bambino, parecchio rovinata, che si trova su uno strato d’intonaco superiore agli altri dipinti e quindi più tarda. Grandissima è la somiglianza con quella presente sulla parete sinistra dell’oratorio di San Pietro in Vincoli: stessa postura del corpo, stesse pieghe del panneggio, stessi caratteri del volto.
Passando ora ai sette dipinti citati, si tratta di: San Rocco, San Sebastiano, San Martino e il povero, San Rocco, Santo Vescovo, San Bernardino. I primi due sono entrambi raffigurati in età molto giovane, con capelli lunghi, con aspetto quasi femmineo. I corpi sono solidi, torniti e volumetrici, scarso invece è l’interesse per la caratterizzazione dei volti che sono simili tra loro. In alto le immagini sono concluse da una conchiglia decorativa (così come in alcuni dipinti in San Biagio a Zello)[13]. L’altro San Rocco assomiglia molto a questo, ma è più curato nella resa dell’abbigliamento. Non deve stupire la continua rappresentazione di tali Santi, in quanto erano entrambi considerati protettori contro la peste, viste le piaghe che loro stessi avevano sul corpo; il loro continuo ripetersi diviene per noi indice di come questa zona fu più volte minacciata dalla presenza di epidemie, a tal punto che si preferirono dedicare più immagini votive a loro che a San Lorenzo, titolare dell’oratorio.
In San Martino e il povero, il Santo presenta un volto simile agli altri Santi e un corpo esile. Il povero a malapena si riesce ad intravedere, ma ha un corpo ben tornito. La cosa più interessante è senz’altro il cavallo: molto buona è la capacità di renderlo al trotto, e di sottolinearne l’aspetto volumetrico e massiccio.
Il Santo Vescovo, facilmente riconoscibile dalla mitra e dal pastorale, è ben conservato nel corpo, mentre praticamente è andato perduto il viso. Nella mano sinistra tiene un libro, mentre con la destra benedice, indossa una veste bianca ricoperta da piviale viola.
Infine vi è l’immagine rovinatissima di un Santo che il libro e il monogramma di Cristo (IHS) identificano con San Bernardino da Siena.
Riassumendo, vedrei quindi attiva una mano operante sul finire del Quattrocento non molto abile nella resa dei volti, tutti uguali ed inespressivi, più attenta invece alla cura degli abiti e alla tornitura dei corpi. In quasi tutti gli affreschi è presente inoltre una banale decorazione di fondo, data da una cornice verde e dal riquadro rosso.
Si considerino ora i tre dipinti del presbiterio, che collocherei agli inizi del Cinquecento, ma dove vedrei una mano più abile rispetto a quella appena considerata. Migliore infatti risulta la resa degli incarnati, i corpi sono più volumetrici e plastici, maggiore è il tentativo di offrire una rappresentazione realistica. Si tratta di una Madonna in trono con Bambino, San Pietro e un devoto, una Crocifissione, un Sant’Antonio. Riguardo alla prima, tre sono gli elementi interessanti: inanzitutto il trono che presenta la tipica predella alla veneta, come nella Madonna in trono con Bambino presente al centro della parete sinistra dell’oratorio di Massimbona, e in un’altra Madonna in trono con Bambino tra Santi sulla parete sinistra del Romitorio di San Pietro a Redondesco Ora tenuto conto anche del fatto che, secondo quanto riferitomi da un esperto, le terre utilizzate per colorare gli affreschi provengono quasi tutte dal territorio veronese (soprattutto quelle gialle e rosse), e considerata la vicinanza tra Massimbona, Guidizzolo e Redondesco, e a sua volta la vicinanza di esse con il territorio veronese (tra Verona e Massimbona ci sono circa trenta Km), sembra logico supporre che abbia operato qui un pittore di scuola veronese.
In secondo luogo, significativa è la presenza del devoto
(probabilmente il committente dell’opera) ai piedi della Vergine. Il colore purtroppo si sta deteriorando, per cui, se non si interviene, tra qualche anno non sarà più visibile. Tuttavia è possibile intravedere il suo nome da una iscrizione in basso: De Apetinis.
Ultima cosa importante è l’immagine di San Pietro a fianco della Vergine: la caratterizzazione del volto, la tornitura e postura del corpo, i colori dell’abito e del manto, assomigliano all’immagine di San Pietro collocato sulla parete esterna dell’oratorio di San Pietro in Vincoli.
La Crocifissione, il cui stato di conservazione è discreto, mostra un Cristo dall’anatomia assai sottolineata, con due esili braccia e un viso magro dall’espressione sofferente. Accanto vi sono la Vergine e San Giovanni, molto curati nella gestualità, anche se appaiono troppo rigidi ed impacciati nel movimento. Significativo sullo sfondo il tentativo di rappresentazione paesaggistica della città (si vedono torri, campanili, tetti)
Infine il Sant’Antonio Abate, riconoscibile dal fuoco nella mano destra e dal maialino in basso, presenta un corpo imponente ed una elaborazione del viso di notevole qualità. Il pittore è infatti assai attento nel rendere l’incarnato anziano con rughe intorno agli occhi, sulla fronte, il volto scavato con lunga barba bianca e colorito olivastro. Il corpo è massiccio, le mani sono grandi e forti. Da sottolineare la somiglianza con il volto di un Santo che compare in un dipinto a Massimbona, e soprattutto la somiglianza di entrambi con una tavola raffigurante un Sant’Antonio attribuito a Tomaso De Oprandis insieme ad altre cinque, presenti in San Silvestro a Mantova.
Passando ora sulla parete sinistra sono presenti i dipinti più pregevoli di tutto l’oratorio: si tratta di un Santo Vescovo, una Santa Maddalena con devoto e una Santa sconosciuta. Il primo, la cui conservazione è buona, mostra la medesima tipologia di quello presente sulla parete destra (stessa postura, stessa caratterizzazione del volto) solo che il pittore operante è molto più abile e attento. È assai curato nel volto e nella caratterizzazione degli abiti: il piviale è decorato da motivi vegetali e floreali (gli stessi che troviamo anche a Campi Bonelli, Cereta ecc.), la mitra è resa da una decorazione a nastri e puntini, l’espressione del viso è triste. Il corpo ben proporzionato è tornito e volumetrico.
La Santa Maddalena con devoto è chiaramente riconoscibile dai lunghi capelli biondi e dal balsamario[14] nella mano sinistra. Nonostante le mani siano grandi e rese grossolanamente, il resto del corpo è ben realizzato, soprattutto notevole è il viso che ricorda il modo di operare dei pittori della scuola di Giovan Pietro da Cemmo. Molto curati sono infatti l’incarnato, gli occhi semiaperti, il profilo e i lunghi capelli mossi.
La Santa a fianco non è purtroppo di ben chiara identificazione in quanto cattivo è lo stato di conservazione nella zona inferiore. I capelli lunghi e biondi la inquadrerebbero ancora come una Maddalena, ma visto che si tratta della stessa mano della precedente, non vedo il motivo di rappresentare il medesimo soggetto due volte. In ogni caso il modello seguito è sempre il precedente: viso ben curato, corpo proporzionato, grossolanità delle mani.
Il pittore che opera è già della prima metà del Cinquecento, molto aggiornato e con chiari modelli dell’arte del XV – XVI secolo a cui far riferimento. Un’abilità nella resa dei volti è riscontrabile solo nei dipinti di Fontanella Grazioli, che in seguito vedremo.
Proseguendo lungo la parete sinistra, di epoca successiva è una Pietà decontestualizzata, in quanto tutte le altre pitture vicine furono eliminate per l’inserimento di un altare.
La parte superiore è un innesto ottocentesco, mentre quella inferiore originale è purtroppo in un pessimo stato di conservazione e, se non verrà attuato un intervento immediato, essa scomparirà: è composta da San Giovanni sulla sinistra, la Maddalena sulla destra e la Vergine reggente il corpo di Cristo al centro. La tipologia della Maddalena è molto simile sia nel volto che negli abiti alla Santa precedente, per cui si può pensare alla medesima mano anche se, ripeto, è troppo rovinato il dipinto per affermare ciò con sicurezza.
La parte superiore è data da una croce e due angioletti reggenti una corona.
Le ultime quattro opere rimaste, una Madonna con Bambino sempre lungo questa parete, un San Bernardino con devoto, San Sebastiano e una Madonna in trono con Bambino in controfacciata, sembrano opere di una medesima maestranza. Le due Madonne hanno infatti lo stesso volto e sono praticamente vestite uguali, San Sebastiano e il Bambino della seconda Vergine hanno un corpo volumetrico e ben tornito, ovunque prevale l’uso dei rossi e dei verdi. Ciò che suscita maggior interesse è la raffigurazione della seconda Madonna in trono con Bambino e il San Bernardino con devoto.
La prima è significativa per la sua notevole somiglianza con quella presente sulla controfacciata della chiesa di San Pietro in Vincoli. Il suo stato di conservazione è un po’ precario e, in molti punti infatti manca il colore. La Vergine è assisa su un bianco seggio massiccio, contro uno schienale arancio decorato a motivi vegetali. Indossa un abito rosso con velo verde, il viso è ben delineato, la testa armoniosa stona però con le mani fortemente sproporzionate. Il Bambino è rivolto alla madre in un atteggiamento tenero, è tornito e paffuto. La somiglianza con Massimbona emerge proprio nella tipologia del Bambino (nudo, paffuto, con simboli cristologici) oltre che nel tratto grafico arcaico e nel rigido panneggio.
Il San Bernardino con devoto è chiaramente identificabile dall’abbigliamento e capigliatura da frate oltre che dal monogramma IHS di Cristo sul petto. È assai compromesso soprattutto nella parte superiore, tuttavia buona è la conservazione del devoto ai suoi piedi, caratterizzato nella capigliatura e nell’abbigliamento in modo tale che potesse essere prontamente riconosciuto. 

3.4. IL ROMITORIO DI SAN PIETRO

A quindici Km da Massimbona sorge tale edificio, del quale purtroppo non esiste alcuna documentazione bibliografica[15]. La chiesa è immersa nella campagna, esattamente sulla strada che collega Redondesco[16] a Mariana Mantovana. Si presenta con una facciata a capanna, un massiccio campanile quadrato e una struttura a fianco, chiaramente aggiunta successivamente[17] e direttamente collegata all’interno tramite una porta laterale. Al centro della facciata si trova un oculo che, insieme al portale ad arco acuto, fu aggiunto in età gotica. Oltrepassati due gradini, si entra all’interno, dove si ha un’unica navata con la solita struttura ad arco che separa il presbiterio dal resto della chiesa. Oltre alla citata porta sul lato destro, ne furono aggiunte altre due: una sulla parete sinistra e una dietro l’altare. Il pavimento, il tetto e la copertura a capriate sono ancora una volta novecentesche.[18] All’esterno i muri mantengono la struttura originaria, non sono intonacati ma hanno mattoni a vista, mentre all’interno, soprattutto la fronte dell’arco e la zona absidale, sono cariche di dipinti che pian piano emergono dall’intonaco.
Per quanto riguarda la dedicazione della chiesa a San Pietro, vale quanto già detto in precedenza per l’oratorio di Massimbona.
Riguardo agli affreschi, prima di una dettagliata analisi, è necessario premettere che molto probabilmente furono più volte ripresi e ridipinti nel corso del XIX e XX secolo, per cui è difficile darne una datazione precisa. Inoltre sono in un pessimo stato di conservazione a causa delle innumerevoli scritte graffite ovunque.
I dipinti che, pur essendo stati ritoccati mantengono di più l’originaria natura sono i due presenti sulla parete sinistra, che evidenziano anche la mano di un medesimo artista. Si tratta di un San Domenico con San Rocco e San Sebastiano e di una Madonna in trono con Bambino e un Santo vescovo. Il primo è molto rovinato e lacunoso. San Domenico sulla sinistra presenta un saio grigio dal panneggio rigato; il viso roseo è molto paffuto ben delineato. Il Santo tiene in mano una chiesa, il Laterano, uno degli attributi tipici di esso (la chiesa infatti minacciava di crollare, ma fu poi sostenuta dall’intervento di Domenico).
Al centro sta San Rocco, riconoscibile chiaramente dal bastone da pellegrino, dalla coscia scoperta e piegata, dal cappello e dalla vicina iscrizione ROC. Il Santo è completamente rivolto verso San Sebastiano, indossa una camicia rossa, cinta in vita a gonnellino ed è avvolto in un manto bianco. Il volto, pur rovinato, sembra ben curato, con una buona fattura del profilo. Al suo fianco sta un bel San Sebastiano, sapientemente reso anatomicamente (si veda la nervatura del collo, il petto, gli addominali). Il viso è curato nell’incarnato e nell’espressività; al suo fianco sta la lettera iniziale di un’iscrizione S e altre lettere ormai incomprensibili. Ora, visto l’abbigliamento di San Rocco e la cura anatomica riservata a San Sebastiano, l’affresco è databile alla fine del Quattrocento.
Il dipinto successivo è meno rovinato del precedente, ma probabilmente ritoccato in più punti. L’immagine della Vergine in trono posta sulla sinistra è tagliata, in quanto si è divelto un pezzo d’intonaco, lasciando trasparire la decorazione soprastante data da alti pilastri con basamento. Essa è seduta su un trono massiccio, indossa un lungo mantello rosso, il suo volto è delicato e ben delineato, ma non è assolutamente originale, bensì rifatto nel XX secolo. Il Bambino è completamente scomparso e resta solamente la sagoma. La Madonna con la mano sinistra accarezza un cavallo bianco, il quale a sua volta viene toccato anche dal Santo Vescovo. Quest’ultimo è vestito di bianco con un piviale rosso, la mitra è ben delineata e decorata a perline, molto elaborato è anche il pastorale. Il volto è stato rifatto come quello della Vergine. Sullo sfondo è presente una cesta contenente gli strumenti di lavoro del maniscalco: una staffa, un martello, dei chiodi, un ferro di cavallo. Questi ultimi e la presenza del cavallo, inducono ad identificare il Santo con Sant’Eligio (protettore degli orafi e dei maniscalchi), spesso rappresentato con un cavallo al quale, secondo la leggenda, staccò e riattacò una zampa per ferrarla con comodità. A fianco sta la figura piuttosto sciupata di un Santo monaco: indossa un abito bianco dal panneggio falcato, con la mano sinistra tiene il bastone con la destra benedice, è probabilmente un domenicano.
Infine, sempre lungo questa parete, è presente un dipinto dall’iconografia inconsueta per questi oratori. Trattasi delle Nozze di Cana in buono stato di conservazione. Una grande struttura in mattoni, con tre finestre superiori da cui sporgono delle figure umane, si apre a porticato con tre archi sorretti da due pilastri e due colonne. All’orizzonte di questo ambiente interno si trova l’immagine di un trono sopraelevato (chiaro simbolo dell’inizio di una nuova era sulla terra, data dalla signoria di Cristo sul mondo), davanti ad esso stanno tutta una serie di suppellettili da cucina (brocche e bicchieri). Dopo di che inizia la pavimentazione, con mattonelle colorate di bianco, rosso e verde, sulla quale poggia il tavolo riccamente imbandito. Attorno ad esso stanno i commensali, cinque da un lato e quattro dall’altro, essi sono vestiti e pettinati secondo la moda del tempo (primi del Cinquecento), si cerca di dare anche una certa caratterizzazione nei gesti e nelle posture. A ridosso del tavolo vi è un gruppo fittissimo di Santi che osserva la scena dalla quale emerge evidente un commensale col boccale elevato. Infine in primo piano, poggianti contro una cinta muraria, data da tre torrette, sta un folto gruppo di uomini, che voltan le spalle al pubblico, ed osservano concitati la scena.
Poter scoprire cosa si trova sotto l’intonaco circostante, ci aiuterebbe senz’altro a capire meglio la scelta di tale iconografia e quale fosse il contesto in cui si inseriva.
Passando ora sulla parete destra il primo dipinto presente raffigura il Battesimo di Cristo: due pesanti crepe lo attraversano, dovunque ci sono iscrizioni, al centro è addirittura incisa una casetta stilizzata. La scena è ambientata in un paesaggio campestre con alberi sullo sfondo e il fiume che scorre in primo piano: al centro sta Gesù inginocchiato a mani giunte, avvolto da un panno bianco. Il viso appuntito è ben delineato e ricoperto da lunga barba e capelli. Il corpo è sottile, ma abbastanza curato a livello anatomico, seppur troppo rigido. San Giovanni Battista, posizionato sulla destra, benedice e con la sinistra tiene la croce avvolta da un cartiglio che riporta l’iscrizione: Ecce Agnus Dei (ecco l’Agnello di Dio). Indossa un abito scuro stretto in vita e ha il volto praticamente uguale a quello di Gesù; anche lui è molto rigido. A sinistra è presente un Angelo assai rovinato, vestito di bordeaux con due grandi ali marroni, che tiene le vesti di Cristo, dal panneggio molto sottolineato. Infine sul capo di Cristo scende la colomba dello Spirito Santo.
Il dipinto nel complesso risulta quasi tutto rifatto, per cui non è più possibile darne un’inquadratura precisa; oltrettutto non ha alcun elemento che lo ricolleghi agli altri dipinti presenti nel Romitorio.
Proseguendo lungo la parete si trovano invece altri due affreschi, legati ad una medesima mano, uno dei quali riporta in basso un’iscrizione illeggibile ma in cui si riesce ad intravedere un 1498. Si tratta di una Madonna in trono con Bambino tra San Pietro e San Paolo e una Madonna in trono con Bambino tra Santi. La prima è seduta su un trono sapientemente realizzato da un punto di vista geometrico, indossa una veste bianca ricoperta da un manto rosso che evidenzia un panneggio molto sinuoso. I tratti del viso sono delicati, così come la mano che finemente porge al Bambino una rosa[19]; quest’ultimo è paffuto, tornito, dai tratti del viso realistici, con un’aureola dipinta a croce patente. Esso è in posizione molto naturale con un ginocchio sollevato e la mano verso la Madre. I Santi Pietro e Paolo a lato sono ben curati nei particolari e nella resa degli elementi simbolici (libro e chiavi per Pietro, libro e spada per Paolo).
La seconda, riportante l’iscrizione con data, è in un pessimo stato di conservazione: mancano alcune parti e ancora una volta parecchie sono le scritte graffite. Il trono è di fattura diversa rispetto al precedente: è concluso da un arco in alto e da una predella veneta in basso, assai curato geometricamente. La Vergine, vista frontalmente, tiene in braccio il Bambino, il quale tiene sul braccio sinistro un uccellino, ed è praticamente simile al precedente (simboli cristologici, aureola a croce patente, nudità). I due Santi potrebbero forse essere un San Pietro e un Santo Antonio Abate (si veda per quest’ultimo l’aspetto anziano e il bastone da pellegrino); il San Pietro, posto sulla sinistra, presenta una tipologia identica a quella del Santo posto sulla parete esterna dell’oratorio di San Pietro in Vincoli a Massinbona e a quello che accompagna la Madonna in trono con Bambino nell’oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo (stesso viso, stessa postura, stesso colore delle vesti).
Tenendo conto del fatto che sicuramente gli affreschi sono stati ridipinti nel secolo scorso, tuttavia la loro tipologia è comunque simile a quella usata a Massimbona e Guidizzolo. Tanti infatti sono i richiami: dalla figura di San Pietro, alla predella del trono, al Bambino ignudo, all’uso delle medesime terre veronesi. Quindi probabilmente l’artista, che qui opera negli anni attorno al 1498, era in contatto con le realtà pittoriche circostanti.
Spostandoci ora nella zona presbiteriale vanno inanzitutto considerati i dipinti sulla fronte dell’arcone. L’immagine più chiara è quella centrale raffigurante il Cristo risorto tra due Sante, mentre le altre sono minuscole e di difficile analisi; partendo da sinistra verso destra si intravedono: un San Lorenzo
(o San Biagio) e un Santo Martire,un Arcangelo Gabriele, una Deposizione di Cristo, una Vergine Annunciata, uno stralcio di San Lorenzo. Per ciò che riguarda il Cristo Risorto è un molto rovinato sulla destra e manca in diversi punti del colore, ma almeno è privo di graffiti e scritti. Ha il corpo seminudo, in parte coperto da un panno bianco che lascia trasparire le membra, la cui anatomia è abbastanza curata. Il volto è statico, ieratico e serioso. Con la mano destra benedice ed intorno ad essa vola un cardellino, simbolo della sofferenza e della passione di Cristo; con la sinistra regge il pastorale, appena visibile. Nel fianco sinistro è presente una Santa con veste rossa ricoperta da un mantello bianco che con la mano destra conduce lo sguardo dello spettatore verso il Cristo; potrebbe trattarsi, visto l’abito bianco da badessa, di Santa Brigida. Dell’altra Santa resta solo un pezzo di abito rosso.
Risulta arduo proporre una datazione precisa e non è facile capire se la mano sia la medesima degli altri dipinti del presbiterio, perché anche in questo caso siamo di fronte a diversi ritocchi. Si può comunque ipotizzare una cronologia tardo Quattrocentesca legata forse alla maestranza precedente.
Si considerino ora gli affreschi della zona absidale, nascosti dall’altare costruito davanti. Al centro del catino sta la figura del Cristo Pantocratore sorretto da Angeli, le immagini in basso invece sono troppo rovinate per poter suggerire un’identificazione precisa, probabilmente trattasi dei dodici Apostoli vista la loro disposizione e vista l’iconografia del Cristo. Quest’ultimo presenta uno stato di conservazione migliore rispetto agli altri dipinti e non è stato raggiunto dalle scritte graffite, anche se una vistosa crepa lo attraversa dall’alto al basso. Rimane pochissimo dell’opera originale, in effetti il dipinto sembra chiaramente rifatto nel Novecento: i colori utilizzati sono molto forti e intensi, i contorni precisi. Tuttavia il volto appuntito, dagli occhi ovaleggianti, dal naso sottile, dallo sguardo fisso e ieratico, mantiene i tratti tipici trecenteschi. 

3.5. LA CHIESA DEI CAMBONELLI

Collocata nel territorio di Campi Bonelli a Mariana Mantovana[20], la chiesa dista circa venti Km da Massimbona. Si trova con precisione sulla strada che da Redondesco porta verso Mosio e per raggiungerla è necessario percorrere una tortuosa stradina di campagna: tutt’intorno ci sono campi coltivati e lì vicino scorre il fosso Tartarello.
La dedicazione della chiesa alla Vergine Annunciata è facilmente giustificabile in quanto, come già detto, molto forte era il culto mariano in queste zone.
Esternamente l’edificio[21] è un po’ più articolato rispetto agli altri: la facciata è a capanna con un protiro aperto su tre lati da archi a tutto sesto sorretti da colonne; al centro della facciata sta un rosone tra quattro paraste, sopra il quale è impostato un timpano triangolare. Secondo un antico disegno del 1583 – 1585[22], dove la chiesa è raffigurata insieme a corte Melone, non esisteva ancora il protiro ma già era presente il rosone. Anche il Catasto Teresiano evidenzia l’assenza del protiro, probabilmente venne costruito tra Ottocento e Novecento. Il pavimento e il tetto furono rifatti nel Novecento, in particolare quest’ultimo nel 1916 quando crollò quello precedente.
Sono visibili un campanile, tre absidi e il solito corpo laterale (abitazione di sacerdoti ed eremiti).
All’interno la chiesa è ad aula unica con un transetto a tre archi, poggianti su due colonne in cotto, che separa nettamente la zona absidale dal resto della chiesa.
Restano purtroppo solo gli affreschi della zona absidale, mentre le pareti laterali ne sono quasi completamente prive.
Partiamo allora dall’unico dipinto presente sulla parete laterale sinistra: una Madonna in trono con Bambino, il cui stato di conservazione è abbastanza buono. Il trono è una struttura massiccia e profonda che rende perfettamente la terza dimensione; su entrambi i braccioli sono posti vasi di gigli e un po’ più in alto due candelabri. La Vergine, intenta in un momento affettuoso con il Bambino, indossa una veste rossastra ricoperta da un manto giallo attentamente decorato da motivi vegetali e floreali; il panneggio è morbido e aderente al corpo. Il Bambino è ritto in piedi su un cuscino: fin troppo accentuata è la resa anatomica del corpo tornito e paffutello. Presenta un’aureola a croce patente ed i soliti simboli cristologici della Redenzione.
Il dipinto nel complesso appare esageratamente carico di elementi decorativi e troppo forzato nella resa prospettica ed anatomica. È opera probabilmente, sempre tenendo presente il fatto che in parte è stato sicuramente ritoccato, di un pittore di fine Quattrocento, che cercava di applicare le innovazioni rinascimentali che a Mantova erano significativamente presenti grazie all’attività di Andrea Mantegna dal 1465 al 1474.
Passando ora alla zona absidale, essa è molto ricca di dipinti, alcuni dei quali vennero però rifatti nel Novecento. Essi sono così disposti: l’abside centrale è suddivisa in tre parti, nella più alta c’è un’Annunciazione, nel catino un’Incoronazione della Vergine, al di sotto una schiera di Sante e Madonne; in quella di sinistra in alto si trova una Madonna in trono con Bambino, e in basso San Cristoforo, San Sebastiano, San Rocco e il Cristo Benedicente; in quella di destra una Pietà; infine sulla colonna di destra è presente un Gesù eucaristico con la Croce. Quest’ultimo presenta uno stato di conservazione un po’ precario. È chiaramente inserito in una struttura ad arco rinascimentale, poggia su un piedistallo e ai suoi piedi, sulla sinistra, sta l’ostia sopra un calice. Nella mano sinistra tiene la croce, massiccia e ben proporzionata, mentre con la destra mostra la piaga del costato. Il corpo del Cristo è sottile ma abbastanza tornito, il volto è sapientemente caratterizzato da un’espressione di tristezza ed è coronato da spine. Il dipinto nel complesso è databile al tardo Quattrocento inizi Cinquecento, in effetti si richiama molto ad una tela del XVI secolo presente nella chiesa Parrocchiale di Redondesco.
La Pietà presente nell’abside di destra, è chiaramente stata rifatta nel XX secolo, tant’è che presenta la firma del pittore che se ne occupò, A.O.Di Prata.
Passando all’Annunciazione, il cui stato di conservazione è buono, presenta al centro in un tondo l’immagine del Padre Eterno con aureola a croce patente, l’aspetto da vegliardo con lunga barba e capelli bianchi, benedicente la Vergine, verso la quale vola lo Spirito Santo (raffigurato dalla colomba). Essa si trova sulla destra, inserita in una struttura a baldacchino, con le mani incrociate sul petto e legge un libro aperto posto su uno scrittoio. Sulla sinistra invece è presente l’ Arcangelo Gabriele, con il panneggio delle vesti molto insistito, che con la sinistra porge il giglio mentre con la destra benedice. Sullo sfondo si apre un’ambientazione paesaggistica e si legge un’iscrizione: AVE GRATIA PLENA. È chiara ovviamente la collocazione dell’opera sopra l’abside centrale, in quanto la chiesa era dedicata proprio alla Vergine Annunciata.
Sotto, inserita in una grande struttura ad arco, si trova l’Incoronazione della Vergine: al centro sta un poderoso e massiccio trono, una vera e propria struttura architettonica sapientemente resa prospetticamente. Su di essa siede il Padre Eterno, il cui volto è uguale a quello dell’Annunciazione e il corpo, molto poderoso, è ricoperto da un manto ricco di pieghe. Ai suoi piedi sta la Vergine inginocchiata, molto rovinata, ricoperta da un mantello azzurro, che riceve la corona dal Padre.
Ai lati si trovano due gruppi: da destra si ha un serafino nudo, poggiante sul trono, che suona uno strumento con l’arco e più in basso un angelo con un giglio. Lo spazio è poi diviso in due parti, una superiore occupata da tre Angeli musicanti, e la parte inferiore da sei Santi. Tra questi ultimi si riconosce un Santo Monaco e un San Giovanni, tutti con gli arti molto sproporzionati rispetto al corpo. Passando sulla sinistra c’è un altro Serafino nudo che suona il mandolino e sotto un altro Angelo con giglio. Proseguendo ci sono ancora tre Angeli musicanti in alto e una schiera di sette Santi in basso, tra i quali si riconosce Santo Stefano dalla testa insanguinata e San Pietro con le chiavi.
Sia l’Annunciazione che l’Incoronazione sono state senz’altro in parte ritoccate, pur mantenendo però la struttura originaria. Degna di nota appare la scelta dell’iconografia dell’Incoronazione della Vergine, in effetti molto particolare, con il Padre Eterno e non Gesù che incorona la Vergine. Questa è un’iconografia francese che inizia ad emergere in Italia con l’opera, oggi presente alla Galleria degli Uffizi a Firenze, di Filippino Lippi nella seconda metà del Quattrocento. Tale impostazione iconografica non ha riscontri nel mantovano e pochissime sono le testimonianze in tutta la Lombardia.
Passando ora alla schiera di Sante e Madonne, alcune sono state totalmente rifatte nel Novecento. Alessandro Dal Prato ritiene che, a parte la terza e la quinta solamente ritoccate, tutte le altre sarebbero state completamente rifatte seguendo il modello preesistente. Esse sono collocate entro nicchie prospettiche terminanti a conchiglia. La prima, partendo da sinistra, è una Santa vestita completamente di bianco con velo in testa che mostra le stigmate presenti sui palmi delle mani: potrebbe essere Santa Caterina Da Siena.
La seconda Santa è vestita completamente di verde con un velo bianco, e tiene nella sinistra una palma: si tratta quindi di una Santa Martire. La terza indossa un abito molto elegante, con gonna decorata e il corpetto assai elaborato: si tratta di Santa Sabina, vista l’iscrizione gotica a fianco, la palma e il libro.
Al centro sta una Madonna in trono, anch’ essa tutta rifatta. Più interessante è la successiva Madonna in trono con Bambino, ribattezzata dagli abitanti del luogo Madonna dei Cambonelli. Presenta un tratto grafico molto arcaizzante, ma probabilmente risale anch’essa al Quattrocento vista l’impostazione architettonica. Il Bambino, ritto sulla coscia destra, indossa un abito bianco e verde e un’aureola a croce patente; il suo corpo esile è molto sproporzionato rispetto alla Vergine.
Proseguendo, la quarta Santa, vestita di rosa e ricoperta da un ampio manto bianco, ha le mani incrociate sul petto e nella destra tiene la palma del martirio, tra le cui foglie emerge un giglio. Proprio per quest’ultimo elemento potrebbe trattarsi di Santa Vittoria. Infine l’ultima Santa porta una veste rosa ricoperta da un manto verde ed è chiaramente Santa Lucia, visto che nella mano destra tiene i due occhi.
La Madonna in trono con Bambino dell’abside di sinistra, in discreto stato di conservazione, presenta la Vergine seduta su un seggio bianco e robusto, decorato con fiori e girali vegetali, e poggia su uno schienale molto geometrizzato e carico anch’esso di motivi decorativi. Al suo fianco sta in basso un cardellino (simbolo della Passione di Cristo) e sul bracciolo un angelo che suona uno strumento ad arco. La Vergine indossa un abito molto carico di decorazioni vegetali (ricordo come questo tipo di decoro sia molto diffuso nelle figure mariane del rinascimento mantovano nella prima metà del Cinquecento), le mani sono sproporzionate rispetto al corpo e con la destra tiene il Bambino. Quest’ultimo, ritto in piedi su un libro, indossa un abito rosso, è paffutello e tornito, con la mano destra benedice con la sinistra stringe un oggetto non identificabile. C’è sicuramente molta somiglianza tra questa Madonna e quella sulla parete destra: vi vedrei quindi attiva la stessa maestranza.
Infine l’ultimo dipinto dell’abside di sinistra è quello più sciupato ma probabilmente anche l’unico a non aver subito interventi radicali; inoltre in alto corre una cornice contenente una probabile iscrizione riportante l’anno 1450. Si tratta di San Cristoforo, San Sebastiano, San Rocco e il Cristo Benedicente: è un’immagine dal fortissimo carattere votivo e probabilmente fu realizzata come voto contro la peste, visto che tutti e tre i Santi sono considerati protettori contro tale male e sono qui rappresentati in un paesaggio boschivo e fluviale, quale era quello dei Campi Bonelli. Il territorio infatti è chiaramente descritto con le acque del fiume stilizzate e gli alberi sullo sfondo. San Cristoforo è un’esile figurina vestita di giallo con il volto ben delineato rivolto verso il Bambino, il quale sulle sue spalle si mostra sorridente in abito bianco, con la sinistra tiene una striscia in cui sta scritto: Cristo visa fori manu est inimica dolori (la visione della forza di Cristoforo scaccia il dolore[23]). Nella mano destra tiene un bastone e la palma del martirio. Al centro San Sebastiano è quello meglio reso come plasticità e volumetria del corpo, con una certa attenzione all’anatomia. C’è poi San Rocco, il cui abito è della stessa foggia di quello di San Cristoforo, che con la mano destra stringe il bordone, mentre con la sinistra indica la piaga sulla coscia.
Il Cristo Benedicente in alto, infine, con la sinistra benedice e con la destra tiene un libro aperto, nel quale si intravede tale scritta: Ego sum lux mundi via veritas et vita.
Riguardo all’iscrizione presente nella cornice è molto sciupata ma si riesce a leggere: Hoc opus f(ecerunt) f(ieri) tonius et b……f(ilii) Bartolomei petri frates del zino……die XI setembris MCCCCI……Christus rex venit in pace et deus homo cactus est. Traducendo diviene: Quest’opera fecero fare Tonio e B figli di Bartolomeo di Pietro fratelli del Zino il giorno 11 settembre 1450… Cristo re venne in pace e da Dio diventò uomo. 

3.6. LA CHIESA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

Tale edificio sorge nel territorio di Olfino, che dista circa venti Km da Massimbona. Questo paese, facente parte del comune di Monzambano, non è segnalato nei distretti elencati nel Catasto Teresiano, per cui probabilmente nel Settecento apparteneva ancora al territorio veronese (Monzambano infatti è sul confine con Verona). La chiesa[24] è raggiungibile da Goito immettendosi sulla strada dei colli, direzione Monzambano, e un Km prima di quest’ultimo svoltando sulla destra. Essa è immersa in una piccola borgata di case a ridosso delle colline moreniche.
Non sono molte le notizie storiche legate alla chiesa, che sarebbe stata acquistata nel XVI secolo, insieme ai campi attigui, da una Congregazione di Olivetani guidati da Padre Sinibaldo che qui risiedeva. (già nel Cinquecento infatti è attestata la presenza di un edificio laterale, abitazione dei frati). Anche tuttora la chiesa è gestita da una piccolissima comunità di frati appartenenti alla Congregazione dei Servi di Maria.
Esternamente l’edificio si presenta con facciata a capanna, un campanile posteriore ed un corpo laterale sul fianco destro. In alto corre una fila di archetti pensili sotto i quali sta un rosone. Sopra l’ampio portale è presente una piccola nicchia contenente la raffigurazione in cotto della Trinità. All’interno la chiesa è ad aula con quattro nicchie laterali e un piccolo presbiterio quadrangolare. Il tetto, la copertura interna a capriate e la pavimentazione sono sicuramente stati sistemati nel corso del Novecento. Riguardo agli intonaci esterni, mentre il campanile conserva l’originaria struttura in sassi, la chiesa è ricoperta da una tonalità di giallo chiaro. All’interno le originarie pareti decorate di affreschi furono riempite in epoca barocca da innumerevoli stucchi, i quali, secondo una data riportata sull’architrave della porta che dal presbiterio porta alla sagrestia, risalirebbero al 1621 (NON CORONABITUR MDCXXI). Gli affreschi, soffocati da tali sculture, cominciarono a riemergere solo durante la seconda guerra mondiale, mentre il sacerdote Ottavio Caurla stava ripulendo gli stucchi. Fu allora che la scuola di disegno di Castelnuovo del Garda (VR), guidata dal professor Saoncella, iniziò un’opera di ripulitura e restauro.
I dipinti che ora analizzerò, sono i più tardi di tutto il gruppo di chiese considerato. Tralasciando infatti le più recenti decorazioni dell’altare, i restanti affreschi risalgono al XVI secolo. Il loro stato di conservazione è buono, nonostante le ridipinture. Si considerino allora in primo luogo i due Santi presenti sul lato sinistro della prima nicchia settentrionale: si tratta di San Lorenzo e Santo Stefano. Sono praticamente uguali tra loro: viso reclinato sulla sinistra, incarnato roseo, profilo ben delineato, capelli neri, struttura corporea massiccia e volumetrica, lungo abito con manica larga e colletto. San Lorenzo nella sinistra tiene un libro e la palma del martirio, nella destra la graticola; Santo Stefano nella sinistra stringe un libro, nella destra la palma, sulle spalle e sulla testa i sassi con cui è stato martirizzato.
Di fronte a questo sta un altro dipinto raffigurante San Luigi IX e San Benedetto. Il primo, riconoscibile dalle piaghe sul corpo e dalla corona sul capo, fu re di Francia e venerato come protettore degli appestati (tale Santo lo si ritrova raffigurato anche sulle pareti della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli). È ben reso nella plasticità e volumetria del corpo ricoperto dalle piaghe della peste. È posto di profilo a mani giunte, il suo viso è aguzzo e ricoperto di barba e capelli scuri. A fianco sta San Benedetto (come ci conferma l’iscrizione: SIT NOME DNI BENEDICTUM), vestito con un lungo abito bianco e recante nella mano destra un libro e un fiore. Il viso è quello di un uomo anziano dalla lunga barba bianca. Curatissima è anche l’ambientazione circostante, che è forse quella del territorio morenico, in quanto si intravedono le colline sullo sfondo e un corso d’acqua con una piccola barca che lo attraversa. Peccato manchi la parte centrale del dipinto, tra i due Santi, che meglio ci avrebbe descritto il territorio.
Infine nella nicchia contrapposta a questa è presente uno stralcio di Natività inquadrata da un elaborato stucco. L’immagine è carica di devozione ed atmosfera natalizia: sulla destra sta la Vergine a mani giunte con lo sguardo rivolto verso il Bambino. Indossa una maglia rossa con gonna verde ed è ricoperta da un mantello bianco. Il viso è dato da linee dolci e delicate, l’acconciatura è molto elaborata. Sulla sinistra è presente un San Giuseppe molto anziano sempre a mani giunte e posto di profilo. È vestito con una tunica gialla, il viso è dato da un profilo tagliente ed è ricoperto da barba, sulla testa porta una specie di turbante. Molto curati e ben delineati sono il bue e l’asinello sullo sfondo, sia nella resa anatomica che in quella espressiva; dietro si intravede la mangiatoia.
Concludendo si può dire che stilisticamente è chiarissima la differenza con i dipinti visti in precedenza ed è quindi probabile una datazione verso la seconda metà del Cinquecento. Si tratta di una maestranza che risente dell’influenza della vicina terra veronese ed in particolare dell’attività di Paolo Caliari detto il Veronese e Giovan Battista Zelotti. Entrambi infatti operano nella prima metà del Cinquecento a Verona, e il primo visita anche il territorio mantovano, entrando a diretto contatto con l’opera di Giulio Romano. 

3.7. IL SANTUARIO DELLA BEATA VERGINE DELLA MALONGOLA

Questa chiesa si trova a Fontanella Grazioli[25], dista circa trenta Km da Massimbona e quindi è molto più vicina alla provincia bresciana che a quella mantovana; in effetti a circa un Km da Fontanella (che è frazione di Casalromano[26]) si trova il paese di Fiesse, che già appartiene al territorio bresciano. La chiesa è raggiungibile percorrendo la provinciale Asola – Isola Dovarese, al bivio per Piadena si svolta a destra e proseguendo per duecento metri ci si trova di fronte ad essa, immersa in un paesaggio campestre circondato da poche case.
La dedicazione alla Malongola è piuttosto strana ed originale: di primo acchito infatti questo termine sembrerebbe avere una valenza negativa, in quanto contiene la parola male. In realtà, secondo quanto anche sostenuto da Giovanni Magri[27], la parola deriverebbe dalla forma dialettale Malagula, cioè apertura, voragine. In effetti nelle vicinanze è presente un guado scavato dall’acqua che rendeva funzionante l’antico mulino vicino alla chiesa, gestito da una comunità di monaci.
In base a quanto riportato nella bibliografia locale e mancando una documentazione precisa, non esisterebbero notizie certe sulla storia dell’edificio: senz’altro l’accrescimento della devozione popolare e l’avvento nel territorio, nella seconda metà del XV secolo, della famiglia Arrivabene, portò la chiesa ad ampliarsi maggiormente assumendo le dimensioni attuali. In una lettera del 1722 indirizzata dal vescovo di Brescia al rettore della chiesa, si evince la volontà di costruire il campanile e la sagrestia. Il resto sono dati recenti: nel 1943 la Soprintendenza di Verona fece rifare la facciata esterna e successivamente sostituì all’antico altare in legno, quello attuale; nel 1988 furono restaurati, per volere di Don Remo Dall’Acqua, gli affreschi interni.
La chiesa si presenta esternamente come un edificio molto basso, accompagnato da un campanile altrettanto basso e squadrato; anche qui si trova un edificio di supporto adibito in passato all’abitazione di sacerdoti che però, invece di essere laterale, è collocato dietro. La facciata, in gran parte rifatta, è a capanna, caratterizzata da un pesante portone in marmo, e due finestrelle laterali (queste ultime esistevano anche prima del restauro e servivano ai fedeli per assistere alle funzioni religiose dall’esterno).
All’interno la chiesa è molto più ampia rispetto alle altre analizzate, pur mantenendo la struttura ad aula; come al solito la zona absidale è divisa dal resto da una possente struttura ad arco. È molto illuminata grazie alle due finestre laterali; sulla parete di sinistra inoltre è presente un’antica apertura ora chiusa, dove probabilmente stava un secondo altare. Il pavimento è piastrellato e la copertura a capriate del tetto fu rifatta nel 1920.
Riguardo agli intonaci all’interno, prima del restauro, ma in parte anche adesso, si vedono le martellinature date ai dipinti per far meglio aderire l’intonaco. Peraltro, nel caso di Fontanella Grazioli, esistono documenti che testimoniano con certezza l’avvento di epidemie forti di peste nel 1630 e nel 1816, ed il conseguente uso della chiesa come lazzaretto; non solo, ma durante gli scavi per il restauro del 1943, furono trovati vicino alla chiesa resti umani per cui essa aveva anche funzione funeraria.
Passando ai dipinti, prima di farne un’analisi precisa, è necessario spendere due parole riguardo alla veneratissima immagine della Madonna con Bambino. Si tratta di una tavola di modeste dimensioni, posta sopra l’altare al centro della chiesa: la leggenda popolare vorrebbe il dipinto datato alla fine del Duecento, ciò è senz’altro improbabile. La tavola infatti, più volte ridipinta, è databile non prima della fine del Quattrocento (si veda il volto della Vergine, la cura nella resa delle mani, la tornitura del Bambino). Dietro essa infine è raffigurato lo stemma di un’ignota famiglia principesca. Secondo la leggenda legata a questo quadro, si narra che in età medioevale un giorno un contadino condusse i suoi buoi ad abbeverarsi al guado del mulino e dentro le acque scorse questo dipinto. Così lo portò al parroco che, verificata la buona fede del contadino, lo sistemò nella chiesa parrocchiale. Il giorno seguente però il contadino tornò al guado e trovò nuovamente l’immagine nello stesso punto. Ciò fu considerato un miracolo e un segnale della Vergine, con il quale ella voleva invitare gli abitanti del luogo a costruire un edificio in suo onore, per cui si decise di fondare la chiesa della Malongola.
Gli affreschi che decorano le pareti sono molti e si presentano quasi tutti in discreto stato di conservazione grazie ai recenti restauri.
Iniziando dalla parete destra si trova una Madonna in trono con Bambino, piuttosto rovinata rispetto agli altri dipinti. Ella siede su uno squadrato seggio marmoreo bianco e poggia su un rettangolare schienale verde. La postura ricalca quella di molte altre Madonne presenti nelle chiese campestri: testa reclinata verso il Bambino e gambe divaricate; indossa un abito rosato con mantello verde, il panneggio è ampio e avvolgente (il viso della Vergine ricorda molto quello presente nella controfacciata della chiesa di San Pietro in Vincoli a Massimbona. Il Bambino porta un’aureola dipinta a croce patente.
Una significativa iscrizione posta al di sopra del dipinto, indica una datazione precisa: P.X.F HOC OPUS GIORGIUS ROCIS IX NOV 1539. Tale opera quindi sarebbe Cinquecentesca e Giorgio de Rocis ne sarebbe l’autore; tuttavia l’iniziale lettera P. è molto scolorita per cui potrebbe trattarsi anche di una F., in tal caso Giorgio de Rocis non sarebbe più il pittore bensì il committente (FECIT X FIERI).
Va considerato comunque che nel vicino territorio asolano, Asola dista circa dieci Km. da Fontanella Grazioli, è attestata nel XVI secolo la presenza della famiglia dei De Rocis. Questi ultimi provenivano dal territorio cremonese e occuparono ad Asola posti insigni in campo civile e religioso. Presso gli abitanti del luogo si parla pure dell’esistenza di un pittore all’interno della famiglia, anche se la cosa non è documentata.
Accanto a questo dipinto sta una Natività che si presenta in uno stato di conservazione migliore rispetto alla precedente. Opera probabilmente anche qui la stessa mano in quanto si riscontrano la medesima tipologia del volto, della postura della Vergine, oltre a significative analogie nel Bambino. L’iconografia scelta è uguale a quella della Natività presente ad Olfino: il Bambino in primo piano sulla sinistra, Maria e Giuseppe sulla destra, il bue e l’asino in secondo piano. La scena si svolge all’ingresso di una capanna delimitata da un arco mozzato e da un pilastro, il paesaggio circostante è quello primaverile con il prato verde. Sullo sfondo, oltre alle colline, si nota un albero privo di rami e mosso dal vento: gli abitanti del luogo ritengono trattasi della rappresentazione del mazzo (pianta che la prima domenica di maggio, in occasione della festa della Madonna della Malongola, viene offerta alla Vergine e innalzata sul sagrato della chiesa). Significativa alla base dell’affresco la presenza dello stemma della famiglia Arrivabene[28], probabile committente dell’opera.
In fondo a questa parete si trova un San Luigi IX, riconoscibile dalle piaghe della peste sul corpo, che, nonostante una piccola lacuna sul capo e sul fianco, è ben conservato. Seminudo, presenta il corpo ricoperto di piaghe e un mantello verde che in parte lo copre. Le mani sono giunte in segno di preghiera, il volto è precisamente delineato e molto solenne; nel braccio destro tiene un bastone e ai piedi ha la corona regale. Probabilmente è attivo qui ancora il pittore precedente, visto che il volto del Santo assomiglia a quello del San Giuseppe della Natività, e i caratteri stilistici sono analoghi a quelli dell’affresco firmato.
Infine in linea con tali dipinti, è la Deposizione presente sulla parete destra dell’ arcone trionfale, forse uno degli affreschi peggio conservati. La Vergine vestita con abito rosso scuro e un mantello azzurro, abbraccia teneramente il corpo del Cristo esamine. Quest’ultimo è trattato piuttosto sommariamente nell’anatomia, e porta un’aureola a croce patente. Va evidenziata la volontà di fare una pittura molto espressiva, che sottolinea i sentimenti, vista la grande sensibilità nel descrivere il dolore della Vergine. Si tratta probabilmente sempre dello stesso pittore degli affreschi precedenti.
Spostandoci ora nell’abside si trovano dipinti datati da una chiara iscrizione posta sull’opera centrale: (FECIT FIERI….S VIR BERTOLINIUS…. MILLESIMO CCC LXXXXII DIE III…). Si tratterebbe quindi di opere databili al 1392 e volute da tal Bertolino, non sappiamo di quale famiglia.
Molte sono le affinità tra queste opere e quelle presenti nella Cappella Bonacolsi a Mantova[29]: potrebbe quindi aver operato una maestranza proveniente da questo ambiente o comunque a conoscenza di esso.
I dipinti si trovano precisamente nella parte bassa dell’abside e sono da sinistra verso destra: Sant’Antonio e San Gaudenzio, Madonna in trono con Bambino e Santo, San Pietro, San Cristoforo, Santa e Cristo Pantocratore. Sono tutti in discrete condizioni conservative e restaurati.
Sant’Antonio e San Gaudenzio sono riconoscibili in quanto Sant’Antonio stringe con la mano destra il libro e la campanella, San Gaudenzio porta la mitra e benedice con la destra. I volti sono praticamente uguali tra loro e a sua volta identici a quelli degli altri Santi presenti nell’abside.
La Madonna in trono con Bambino e Santo, che riporta in alto l’iscrizione, presenta un originale trono: massiccio e carico di decorazioni ad archi, torrette e cuspidi, in cui sono incastonate pietre: questo forte decorativismo molto probabilmente risente già dell’avvento di artisti quali Stefano da Verona, che giunto a Mantova sul finire del secolo aveva portato un’ondata di arte tardogotica. La Vergine, dal volto tondeggiante, indossa un abito verde ricoperto da un mantello blu decorato a fiorellini; il Bambino, reso in maniera molto rozza, è voluminoso e ha i piedi sproporzionati (il volto non è più visibile).
Il Santo successivo potrebbe essere Pietro, ma l’identificazione non è sicura: il fatto che tenga nella sinistra un libro, che con la destra benedica e che sia vestito da Apostolo sembra avvalorare tale tesi. È una figura possente, indossa un abito verde ricoperto da manto rosso; è ieratico e frontale, con il viso abbastanza curato, ma più stilizzato rispetto a quello della Vergine.
La postura e i tratti del volto del San Cristoforo sono identici al Santo precedente. Indossa un corto abito verde e sopra un mantello rosso, con la mano destra tiene il bastone da pellegrino, mentre con la sinistra il Bambino posizionato sulle sue spalle. Quest’ultimo è tutto vestito di bianco e tiene nella mano destra un cartiglio, la cui iscrizione è difficilmente leggibile, sembrerebbe quella presente anche in Campi Bonelli
Vicino ai due Santi sta una Santa purtroppo non pienamente identificabile. Tuttavia nella mano sinistra stringe una tenaglia terminante con un oggetto, probabilmente un dente; si tratterebbe in tal caso di Santa Apollonia anche se l’oggetto non chiaro potrebbero rappresentare dei seni, in tal caso sarebbe Sant’Agata. Indossa un abito rosso ricoperto da un mantello con ricche decorazioni vegetali e nella mano sinistra tiene un libro. Il viso è sapientemente caratterizzato da un incarnato roseo, occhi, bocca e naso ben delineati. Notevole è il panneggio delle vesti e la delicatezza nella resa delle mani.
Sopra tutti i dipinti sta infine il Cristo Pantocratore, piuttosto ridipinto, dall’iconografia ancora bizantineggiante. Il Cristo, posto frontalmente entro una mandorla costituita da un fascio di luce, con la mano destra benedice e con la sinistra tiene il libro aperto e il mondo (è la medesima tipologia iconografica del Cristo presente nel Romitorio di San Pietro a Redondesco). I colori delle vesti sono gli stessi degli affreschi inferiori, la figura è statica, ieratica e solenne.
Si considerino ora i tre affreschi che occupano l’estrema sinistra della parete dell’arcone e la prima parte della parete laterale sinistra, trattasi di un dipinto singolo e di due facenti parte di un rovinatissimo trittico, opere della medesima maestranza. Il primo, sulla parete dell’arcone, rappresenta la Madonna con Bambino e San Donnino: l’iconografia è ispirata alla leggenda di San Donnino, secondo la quale costui era un soldato romano divenuto cristiano e per questo martirizzato con la decapitazione. In effetti è qui rappresentato nell’atto di riporre la propria testa mozza sul collo, mentre assiste al miracolo dell’apparizione della Vergine accanto a lui. Il Santo è vestito con un abito bianco ricoperto da un ampio mantello rosso, il corpo è molto voluminoso, ben caratterizzata è la testa soprattutto nell’acconciatura dei capelli. La Vergine a fianco indossa un abito rosso ricoperto dal solito mantello decorato a motivi vegetali, il viso è delicatamente delineato, le mani dolcemente affusolate. Il Bambino vestito di bianco, tornito e paffutello, è ritto in piedi e porta i soliti simboli cristologici. La dolcezza gotica del volto e degli arti superiori della Madonna, ricorda quella presente in Ognissanti a Mantova e realizzata da Nicolò da Verona (che opera negli anni Sessanta del Quattrocento): inquadrerei quindi l’opera alla fine del XV secolo.
La seconda e la terza immagine sono inserite entro le arcate di un trittico, sostenuto da colonne decorate a girali vegetali, dato da tre spazi. Nel primo si trova raffigurato Sant’Antonio, nel secondo San Francesco che riceve le stigmate, nel terzo non si è purtroppo conservato nulla. Il Sant’Antonio è raffigurato con un lungo abito marrone arricchito da un manto bianco; il volto ben curato è quello di un uomo anziano dalla lunga barba bianca. Nella mano sinistra tiene il bastone con la campanella, in quella destra il fuoco.
La rovinatissima immagine del San Francesco che riceve le stigmate presenta la medesima tipologia di quello in San Lorenzo a Guidizzolo, con il frate inginocchiato a mani spalancate: probabilmente anche qui era presente frate Leone come a Guidizzolo (se ne intravede un gomito). Il dipinto è comunque più raffinato rispetto a quello dell’oratorio di San Lorenzo.
I due restanti affreschi, di gusto linearistico, presenti lungo la parete sinistra sono inquadrabili nel primo Cinquecento. Si tratta di un Santo Martire e San Gottardo e di una Madonna con Bambino. Il primo, un po’ rovinato, mostra la figura di un Santo sconosciuto sulla sinistra: indossa una tunica marrone cinta in vita, il viso molto giovanile dai lunghi capelli castani, nella mano destra tiene la palma del martirio. Quello a fianco invece è, come chiaramente indica l’iscrizione San Gottardo (GOTARDUS): uomo anziano vestito da vescovo, con la mano destra benedice, con la sinistra tiene un libro. I Santi sono piatti e frontali, privi di una significativa caratterizzazione dei volti, ma resi in maniera grafica.
Infine la Madonna con Bambino si presenta come una Madonna del latte: è inserita in una struttura architettonica a porticato sorretta da due pilastri con capitello dorico, e poggia su una balaustra decorata a motivi geometrici. La Vergine in piedi indossa un elegante abito marrone ricoperto da un velo bianco sinuoso e ricco di pieghe. Il viso è praticamente perduto, mentre le mani ben realizzate reggono saldamente il Bambino. Quest’ultimo è in una posizione del tutto naturale, è paffutello e presenta un’aureola a croce patente. In fondo è presente un’iscrizione, probabilmente una preghiera, che così dice: O VIRGO MARIA O MATER….MEMENTO. Infine sul fianco sinistro è presente il lacerto, molto più tardo, di una probabile Madonna nell’atto di schiacciare la testa al drago. 

3.8. L’ORATORIO DI SAN BIAGIO

Questo oratorio dista circa quarantacinque Km da Massimbona e si colloca nel comune di Revere[30]. Lo si incontra sulla strada campestre che da Revere porta a Magnacavallo: sembra una costruzione dimenticata dal mondo, nella quale dal mese di gennaio 2003 non si effettuano più cerimonie liturgiche, in quanto pericolante. La sua conformazione è la medesima delle altre chiese descritte in precedenza: solita facciata (alla quale venne aggiunto in età gotica un oculo centrale), navata unica, campaniletto, presbiterio isolato, capriate, tetto e pavimento rifatti.
Significativa la dedicazione dell’oratorio a San Biagio, in quanto questi era visto come guaritore, un taumaturgo, di cui la zona spesso alluvionata aveva necessità. Inoltre tale Santo era anche, insieme a Sant’Antonio, protettore degli animali domestici.
Grazie all’importanza che la chiesa assunse nel corso dei secoli in quanto legata alla corte di Zello, a sua volta legata ai Gonzaga, esiste una sufficiente documentazione che permette di ricostruire sommariamente la storia dell’edificio. Prendendo come punto di riferimento la bibliografia locale[31], traccerò brevemente il cursus storico di esso.
L’oratorio è citato per la prima volta nel 1219 in un decreto in cui Niccolò Maltraversi, vescovo di Reggio Emilia, conferma a Manfredo, arciprete di Santa Maria di Coriano, la giurisdizione di molte chiese della zona, tra cui San Biagio in Zello (ecclesiam Santi Blaxi de Zella): per questo la costruzione dell’edificio, visti anche i suoi caratteri, risulta più o meno coeva a quella di Massimbona.
Nel corso dei secoli poi la chiesa fu legata alla corte di Zello, la quale distava circa cento metri dall’oratorio.
Nel 1610 iniziano i rapporti con il Seminario di Mantova, dove, ad opera del vescovo Francesco Gonzaga, venne dirottato il patrimonio della chiesa. Nel 1751 poi l’oratorio divenne a tutti gli effetti proprietà del Seminario di Mantova, sino al 1897. Dagli inizi del Novecento la chiesa diviene proprietà della parrocchia di Revere.
Concentrando ora l’attenzione sui dipinti interni, va inanzitutto detto che le pareti custodiscono un patrimonio davvero pregnante. Purtroppo il loro stato di conservazione è pessimo, anche perché, come d’abitudine, parecchi dipinti sono stati martellinati.
Nell’analisi degli affreschi partiamo dall’unico riportante una data: il primo della parete di destra, raffigurante i Santi Bernardino e Rocco. Lungo la cornice ornamentale infatti si intravede un 1491, data attendibile sia per questo affresco che per quelli circostanti, accompagnato dalla scritta ….ANUS FECIT. Ora considerando che il vicino affresco, raffigurante San Biagio, riporta in alto la scritta BASTIANUS, probabilmente questi dipinti furono commissionati da tal Bastiano nel 1491.
In base all’analisi degli intonaci, sarebbero coeve ed attribuibili alla medesima mano, le immagini di San Biagio, San Bernardino e San Rocco, Madonna con Bambino, San Tommaso Apostolo, San Bernardino.
Cominciando da San Biagio, il Santo è vestito di bianco e avvolto in un manto beige dal panneggio sottolineato; nella mano destra tiene il pettine da cardatore con cui fu martirizzato. Il volto è quello di un uomo anziano.
San Rocco e San Bernardino, sono in un forte stato di degrado. Del primo resta praticamente solo il volto posto di profilo e la mano sinistra che mostra il monogramma di Gesù. Il secondo è invece più chiaro, il Santo è immerso in un paesaggio campestre, dove si intravedono sullo sfondo il sole e gli alberi. Indossa un corto abito verde, impugna il bastone da pellegrino e mostra la coscia.
La successiva Madonna con Bambino è di difficile analisi in quanto il suo stato conservativo è pessimo. La Vergine è inserita in una struttura ad arco sorretta da colonne tortili di variegati colori, sul capo porta una corona ed i lineamenti del volto richiamano quelli dei Santi precedenti. Indossa un abito verde e con la grossolana mano destra stringe il Bambino, paffutello, che porta una veste gialla.
San Tommaso si presenta con una postura strana: ha il volto crucciato, è quasi in ginocchio e posto di traverso. È una figura molto muscolosa, vestita di viola con la squadra, simbolo distintivo di tale Santo, infilata nel braccio sinistro. L’espressione del viso è davvero molto curata.
Il Santo a fianco, molto rovinato, sembrerebbe il medesimo presente a dire San Bovone (stesso cappello, bastone e calzari).
Inquadrabili sempre alla fine del Quattrocento, ma legati ad una maestranza diversa rispetto la precedente, sono due dipinti presenti lungo la parete sinistra. Il primo, la Madonna in trono con Bambino e San Bernardino, è molto scolorito e carico di martellinature. La Vergine siede su un massiccio trono ligneo completato in alto da uno schienale a parapetto, realizzato in maniera sapiente e proporzionata. Indossa un abito bianco ricoperto da un manto marrone: la postura cambia rispetto alle altre Madonne viste finora, in quanto questa tiene le mani giunte in preghiera e il Bambino non è rivolto al pubblico, ma disteso sulle sue ginocchia. Quest’ultimo porta la solita aureola a croce patente ed i simboli cristologici della Redenzione. San Bernardino è posto sulla destra con in mano il libro e la croce, indossa il saio da frate con la tipica chierica in testa; è comunque un’immagine molto deteriorata, tant’è che del viso si riesce ad intravedere ben poco. Nell’insieme l’affresco appare curato nella resa dei volumi e della plasticità dei corpi.
Il secondo dipinto, la Madonna con Bambino tra San Bernardo e San Bovone, è in condizioni ancor più pietose, con il colore che sta pian piano venendo meno. La Vergine siede su un trono marmoreo con schienale decorato ai lati con fiori e al centro da un’ampia conchiglia (decorazione quest’ultima ricorrente nei vari oratori campestri). Indossa un abito violaceo ricoperto da manto verde, ricadente in fondo con un vivace panneggio. C’è un tentativo di dare realismo nello sguardo e nelle mani che sorreggono il Bambino. Quest’ultimo, dal viso pieno e dalle gote paffute, sta ritto in piedi sulle ginocchia della madre e porge le mani verso il pubblico, però con una certa rigidità.
San Bernardo sulla sinistra è rappresentato questa volta come un anziano dalla lunga barba bianca, al posto della croce impugna il bastone. Indossa una veste marrone ricoperta da un lungo manto verde chiaro.
Il Santo Cavaliere sulla destra è stato identificato[32] come San Bovone in quanto nello stendardo che tiene nella mano destra è rappresentato un bovino. L’ipotesi sembra corretta, in quanto tale Santo provenzale era venerato come un prodigioso guaritore. Indossa un paio di calzari rossi e una maglia viola stretta in vita terminante a gonnellino. Anche qui le figure sono piuttosto solide e volumetriche, anche se spesso appaiono un po’ troppo rigide ed impacciate.
Proseguendo lungo la parete si incontra una Madonna in trono che allatta il Bambino. L’affresco è molto rovinato, ma si vede una bella Madonna massiccia, seduta su un trono rosso altrettanto robusto. I colori dell’abito sono ormai di un rosso consumato, ricoperto da un velo bianco. La Vergine rivolge un dolce sguardo materno al Bambino, il quale, nudo e paffuto, sembra proprio un neonato vero. L’attenzione al realismo e la resa dei volumi è la medesima dei due affreschi precedenti.
Di grande interesse è la raffigurazione della Madonna in trono con Bambino tra San Sebastiano e San Simonino, presente sulla parete sinistra. Nonostante il dipinto sia molto rovinato, è stato possibile evidenziare una sovrapposizione di intonaci in basso. Analizzando per prima la parte superiore, che è quella più visibile, si vede la Vergine, assisa su un trono molto elaborato e massiccio, vestita di rosso e ricoperta da un manto verde, che stringe il Bambino con delicate mani. Quest’ultimo è molto realistico: nudo, cicciotello e spontaneo. Porta un’aureola a croce patente e tiene nella mano destra un cardellino. Interessante è la presenza di San Simonino di Trento, in quanto costituisce un termine post quem per la datazione. La leggenda infatti vuole che: il giorno di Pasqua del 1475 venne trovato morto a Trento un ragazzino. Del suo omicidio fu accusata la comunità di ebraici presente nella città (secondo l’accusa essi avrebbero ucciso il Bambino durante un rito religioso) e venne condannata pur non essendoci alcuna prova. Il culto del fanciullo fu pressoché immediato, così come la sua rappresentazione iconografica, che assunse forti connotati anti ebraici. Quindi l’affresco è posteriore al 1475. La sua raffigurazione è giustificabile nell’oratorio di Zello, in quanto a Revere nel XV secolo esisteva una numerosa comunità di ebrei. San Simonino è raffigurato con un laccio al collo, degli strumenti di tortura ai piedi, una bandiera crociata nella mano destra e una maschera in quella sinistra.
Passando ora all’intonaco sottostante, si possono notare in basso, ai piedi del trono, due figure estranee al dipinto in superficie, molto vicine tra loro: quella di sinistra si vede poco per cui non è identificabile, mentre quella di destra è chiaramente un Santo Vescovo in quanto tiene il pastorale ed un libro. Quest’ultimo indossa una veste elegante e decorata ed in generale il panneggio appare abbastanza morbido e fluente; i colori utilizzati sono di tonalità molto forte: verdi, rossi e marroni. Ora, essendo il dipinto superiore quattrocentesco, riterrei l’opera sottostante trecentesca. Va sottolineato come la mano che qui opera non sia affatto rozza, ma anzi appartenga ad un artista raffinato, come dimostra l’eleganza e la delicatezza nella resa del mantello, dell’abito e soprattutto del guanto della mano. Un pittore che si inquadra in quella cultura padana (che tocca centri come Bologna, Piacenza, Milano e Verona), che aveva assimilato la sensibilità giottesca, ma già la mescolava con gli influssi gotici provenienti dalla Francia. Non lontano infatti è questo dipinto dagli echi della pittura del Maestro della Tomba Fissiraga in San Francesco a Lodi.
Infine, databili già al XVI secolo, sono altri tre dipinti presenti sulla parete sinistra: San Giacomo e Santa Maddalena, Tobiolo e l’Angelo Raffaele, una Santa. In tutti e tre opera probabilmente la medesima maestranza: le figure infatti sono molto grandi, voluminose, possenti, eleganti e ricche di particolari. Cominciando con il primo affresco, nel quale i colori non sono originali ma ritoccati in epoca recente, si vede sulla destra l’immagine di San Giacomo: indossa una tunica bianca decorata ai bordi e ricoperta da un manto marrone, nella destra impugna il bastone (simbolo distintivo del Santo pellegrino), nella sinistra il libro. Il volto dall’incarnato scuro presenta un delicato profilo e la bocca semi – aperta. Al suo fianco sta Maria Maddalena, come in parte si evince anche dall’iscrizione in basso (MARIA MAD): porta un abito verde ricoperto da mantello marrone, che tiene delicatamente sollevato con la mano sinistra (a tal proposito molto morbido e raffinato è il panneggio delle vesti). Con la mano destra regge il balsamario.
Nel secondo dipinto, Tobiolo[33] è ben caratterizzato con un abito viola di foggia cinquecentesca (non oltre però gli inizi del Cinquecento, perché indossa un copricapo che si vede anche nella Camera degli Sposi a Mantova). l’Angelo, la cui iscrizione è chiarissima (RAFAEL), è molto massiccio ed indossa un abito rosso bordato d’oro.
Infine c’è una Santa Martire, che non si riesce ad individuare chi sia, in quanto non si capisce quale sia lo strumento che tiene nella mano destra. Indossa un abito dai colori assai sciupati e ricoperto da un mantello rosso, porta dei capelli molto lunghi e biondi. 

3.9. CONCLUSIONE

Le maestranze che operano in queste sette chiese sono molte, anche se non sempre è possibile dare un volto preciso e una datazione puntuale. Tutti gli edifici infatti, come abbiamo visto, sono avvolti da dubbi, incertezze, mancanza di documentazioni.
Il dipinto più antico è quello presente in San Biagio a Zello, vale a dire la rovinatissima immagine di una Madonna in trono con Bambino e un Santo Vescovo, che emerge dal dipinto della Madonna in trono con Bambino, San Sebastiano e San Simonino. Non solo si trova qui la maestranza più antica, ma anche una delle più abili, operante nella prima metà del Trecento (forte è la vicinanza con il Maestro della Tomba Fissiraga a Lodi).
Buona è anche la mano dell’artista che opera nell’abside del Santuario della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli. Qui c’è una datazione ben precisa che è il 1392. Più o meno coeva è l’attività dei pittori operanti nella Madonnina di Mezzacampana di Cereta e nell’abside del Romitorio di San Pietro a Redondesco. La differenza stilistica tra queste due e la Malongola è però notevole. Molto più abile e aggiornato alla cultura giottesca appare infatti il maestro dell’abside di Fontanella, più rozzo e arcaizzante quello operante a Cereta e quello dell’abside di Redondesco. Tale situazione è in parte giustificata dal fatto che, mentre le località di Cereta e Redondesco si trovano in zone molto periferiche e lontane da grandi vie di comunicazione, Fontanella Grazioli è posta sul confine con Brescia da un lato e vicina alla provincia cremonese dall’altro, per cui era molto più facile che vi giungessero maestranze aggiornate.
Molti sono i pittori attivi nel XV secolo e spesso è difficile distinguere le diverse mani operanti in una medesima chiesa, in quanto tendono tutti a sviluppare caratteri stilistici simili. Un riferimento cronologico puntuale lo si trova nelle tre absidi della chiesa della Vergine Annunciata a Mariana Mantovana: qui infatti il pittore avrebbe operato nel 1450, come riporta l’iscrizione presente nel San Cristoforo, San Rocco, San Sebastiano e il Cristo Benedicente. È lui che probabilmente affresca tutte e tre le absidi, compresa l’Incoronazione della Vergine sopra il catino di quella centrale, la cui particolare iconografia (il Padre che incorona la Vergine e non Gesù) crea intorno all’artista un’ aurea di mistero. Essendo infatti questa un’iconografia francese poco diffusa in Lombardia, dove ne sarebbe venuto a conoscenza?
Sempre intorno alla metà del XV secolo opera il pittore che realizza la Madonna in trono con Bambino, San Leonardo e San Bernardino a Cereta. È probabile che egli avesse realizzato una campagna decorativa più ampia, oggi purtroppo non più esistente. Contemporaneamente lavora nel vicino oratorio di San Lorenzo a Guidizzolo una maestranza simile che realizza i primi cinque affreschi sulla parete destra.
Passando ora alla fine del secolo, tante sono le maestranze operanti. Al 1498 sono riconducibili, grazie ad una iscrizione presente in una Madonna con Bambino tra Santi, gli affreschi sulla parete destra e nel presbiterio del Romitorio di San Pietro a Redondesco. Questo artista risulta significativo in quanto il suo stile è molto vicino a quello di due pittori a lui coevi, vale a dire il maestro operante sul fianco meridionale esterno di San Pietro in Vincoli a Massimbona, e quello operante nel presbiterio in San Lorenzo a Guidizzolo, (l’immagine di San Pietro si ripete uguale in tutti e tre i dipinti).Si tratta di artisti in contatto tra loro? o sono semplici modelli che circolano uguali nelle mani dei diversi pittori? Rimanendo sempre a Guidizzolo, altre due maestranze operano alla fine del Quattrocento: una, che realizza sette dipinti lungo la parete destra, meno abile e più vicina alle maestranze precedenti; l’altra invece, operante sulla parete sinistra, evidenzia nella realizzazione di un Santo Vescovo, una Santa Maddalena, una Santa sconosciuta una grande abilità.
Di buona fattura, seppur non uguagliabili a quelli di Guidizzolo, sono i tre dipinti (Madonna in trono con Bambino e San Donnino, San Antonio Abate, San Francesco che riceve le stigmate) presenti sulla parete sinistra del Santuario della Malongola a Fontanella Grazioli. Degli stessi anni sono i due artisti che lavorano in San Biagio a Zello. Di uno si ha una datazione certa: egli opera lungo la parete destra realizzando cinque dipinti, uno dei quali, San Bernardino e San Rocco, riporta la data 1491. L’altra maestranza invece è attiva sulla parete sinistra, ma non si tratta della stessa in quanto i lineamenti dei volti e la postura dei corpi cambiano.
Nel Sedicesimo secolo sono riscontrabili due artisti attivi nel Santuario della Malongola a Fontanella Grazioli. Di uno si sa che gravitava intorno alla famiglia dei De Rocis, residente ad Asola, e forse egli stesso vi apparteneva (non si capisce bene infatti se tal Giorgio De Rocis, sia l’autore o il committente dell’opera). Egli avrebbe realizzato quattro dipinti posti in parte sulla parete destra e in parte sul lato destro dell’arcone (Madonna in trono con Bambino, Natività, San Luigi IX, Deposizione) dove emerge la data 1539 accompagnata dal nome Giorgio Rocis.
Con l’altro artista qui operante siamo già invece alla metà del Cinquecento, egli dipinge un San Gottardo e Santo Martire e una Madonna con Bambino sulla parete sinistra.
Interessante è anche la maestranza che lavora in San Biagio a Zello lungo la parete sinistra. Realizza un San Giacomo e Santa Maddalena, una Santa Maddalena, una Santa sconosciuta, con buona capacità di creare figure tornite e possenti che staccano nettamente dagli altri dipinti.
Infine una mano tipicamente cinquecentesca ed influenzata dalla pittura veneta è quella presente nella Chiesa della Santissima Trinità ad Olfino. Ponendosi quest’ultimo sul confine con la provincia veronese, era ovvia la possibilità di penetrazione di elementi stilistici veneti nel territorio.

Concludendo si può dire che appaia ora più chiara e definita la situazione pittorica delle realtà campestri mantovane, anche se molte sono ancora le incertezze e i dubbi e troppo precarie restano le condizioni dei dipinti: se non si interverrà tempestivamente in molte chiese, tra qualche anno non vi sarà più nulla di visibile. 

[1] La chiesa fu demolita dal municipio di Asola nella prima metà del XX secolo per costruirvi un teatro. Per rendersi conto della bellezza e della abbondanza di dipinti che andarono distrutti basti sfogliare testi quali: A.Portioli, Chiese dipinte del mantovano, Mantova 1883; L.Ruzzenenti, Artisti e cose d’Arte in Asola, 1870.
[2] Ancora oggi infatti gli abitanti della zona chiamano questo edificio “Il Roccolo“.
[3] Spesso tale carattere votivo è testimoniato da iscrizioni alla base del dipinto.
[4] È così volgarmente definito l’Herpes Zoster: dermatite acuta di origine virale che colpisce soprattutto soggetti adulti e anziani.
[5] Come per San Pietro in Vincoli così anche per altre chiesette della zona si deve considerare la loro ubicazione accanto a dei mulini.
[6] In base al Catasto Teresiano settecentesco Volta Mantovana e Goito appartenevano, insieme a Bozzolo e Rodigo, al quarto distretto.
[7] Riguardo alla bibliografia legata a questo oratorio, esaustivo risulta il testo di U.Bazzotti, Indizii di castigato disegno di vivaci colori. Gli affreschi trecenteschi della cappella Bonacolsi, Catalogo della mostra, Giugno- Luglio 1992, Mantova 1992.
[8] Secondo il Catasto Teresiano, Guidizzolo faceva parte, insieme a Castiglione delle Siviere, Cavriana, Medole e Solferino, al quinto distretto.
[9] Esiste un breve ma esaustivo testo riguardante la chiesa: A.Dal Prato, Oratorio di San Lorenzo, Guidizzolo 1999.
[10] Una leggenda circolante in paese vorrebbe la chiesa sorta sulle antiche rovine di un tempio dedicato a Diana.
[11] La congregazione si formò nel 1488 a Gonzaga (paese del basso – mantovano) dove il marchese Francesco cadde da cavallo. Girolamo Redini, suo servitore, giurò che se si fosse salvato si sarebbe fatto eremita. E così infatti accadde, creando questo nuovo ordine.
[12] Stralcio di intervista ad Alessandro Dal Prato, pubblicata su La Notizia, N. 2, Settembre 1995.
[13] In passato la conchiglia fu simbolo del pellegrinaggio di San Giacomo il Maggiore, per poi divenire in generale simbolo di ogni pellegrinaggio.
[14] Il balsamario è un vaso d’unguento con il quale la Maddalena voleva ungere il corpo di Gesù morto.
[15] Qualche riferimento al Romitorio è probabilmente presente in, M. Ragazzi, Redondesco, Mantova 1960. Nessuna copia di tale testo è però presente nelle biblioteche locali e negli archivi mantovani, per cui mi è stato impossibile consultarlo.
[16] Secondo il Catasto Teresiano, Redondesco faceva parte del settimo distretto insieme a Canneto, Acquanegra, Casalromano, Mariana Mantovana, Isola Dovarese ed Ostiano.
[17] Un tempo probabilmente abitata da eremiti o pellegrini di passaggio, oggi invece da una famiglia di nigeriani che custodiscono la chiave dell’edificio.
[18] In questi edifici rurali è difficile stabilire con precisione gli interventi attuati, in quanto la maggior parte delle volte i lavori sono stati fatti a discrezione dei parroci senza tener conto della struttura originale e senza riportare per iscritto nulla di ciò che veniva fatto.
[19] I fiori, quali la rosa e il giglio, sono spesso accompagnati all’immagine della Vergine in quanto simbolo di ciò che è generato dalla pianta, ciò che genera il seme da cui la pianta si svilupperà.
[20] Secondo il Catasto Teresiano Mariana Mantovana faceva parte insieme a Canneto, Acquanegra, Redondesco, Casalromano, Isola Dovarese ed Ostiano del settimo distretto.
[21] Riguardo alla bibliografia esiste un solo testo, Amministrazione Comunale, I Cambonelli di Mariana, Mariana Mantovana 1999.
[22] Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, busta 90, n. 46.
[23] Tale scritta è attestata anche nel San Cristoforo presente nel Santuario della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli. Ora, siccome la visione di tale Santo si diceva preservasse da una morte improvvisa, con dolore qui probabilmente si intende quello dell’inferno, provocato cioè da una morte nel peccato.
[24] Non esiste, nonostante sia stata restaurata, una bibliografia precisa; unici riferimenti si trovano in B. Bresciani, Monzambano, ritorno ad una terra veronese, Verona 1955, p.115 (nota 88) e tav. 14, 15, 16. Oppure significativi sono due articoli di A. Dal Prato pubblicati su: Gazzetta di Mantova, il tre e ventidue aprile 1951.
[25] Sulla chiesa esiste un libretto, che ne esplica in maniera esauriente i caratteri: P.Salvaterra, Il Santuario della Beata Vergine della Malongola a Fontanella Grazioli, Mantova 2000.
[26] Casalromano, secondo il Catasto Teresiano, insieme a Canneto, Acquanegra, Redondesco, Mariana Mantovana, Isola Dovarese ed Ostiano, apparteneva al settimo distretto.
[27] Testimonianza raccolta oralmente.
[28] Come già detto essi gestirono il territorio di Fontanella Grazioli, che ricevettero come feudo dai Gonzaga, nella seconda metà del Quattrocento; oltretutto durante il XVI secolo fu parroco della chiesa anche Don Girolamo Arrivabene.
[29] U. Bazzotti, Indizi di castigato disegno di vivaci colori. Gli affreschi trecenteschi della cappella Bonacolsi, Catalogo della mostra giugno/luglio ’92, Mantova 1992.
[30] Revere, secondo il Catasto Teresiano, apparteneva al quindicesimo distretto insieme a Quistello, Pieve di Coriano, Mulo, Quingentole, Schivenoglia.
[31] Provincia di Mantova – Casa del Mantegna, La chiesa di San Biagio in Zello, Mantova 1987.
[32] Provincia di Mantova – Casa del Mantegna, La chiesa di San Biagio in Zello, Mantova 1987, p.16.
[33] Tobiolo, secondo l’Antico Testamento, è un ebreo figlio di Tobia. Durante la notte, guidato dall’angelo Raffaele, andava a seppellire i corpi dei morti, cosa che il governo Babilonese vietava di fare.

 

Torna all’inizio della pagina>>