LA GIOVINEZZA IN ITALIA

Possiamo tracciare la vita di Sordello con una certa ampiezza e sicurezza. Su di lui possediamo infatti abbondanti notizie, ricavabili anzitutto da due biografie in provenzale, una più ampia e una più breve, scritte in Italia, le quali parlano soprattutto della giovinezza italiana, ricca di avventure ma, per quello che ci rimane, povera di risultati poetici. Fonti biografiche preziose sono pure certe poesie sue e di altri trovatori con cui egli ebbe rapporti, in Italia e in Provenza, e numerosi documenti e atti ufficiali che lo riguardano direttamente o che lo citano come testimone.

Sul luogo di nascita di Sordello, Goito, non vi è alcun dubbio. La biografia più ampia afferma che “Sordels fo de Mantoana, d’un castel que a nom Got” (“Sordello fu del Mantovano, di un castello che ha nome Goito”). Questa notizia è confermata da una rubrica di un codice della Biblioteca Vaticana che ci conserva sette suoi componimenti, dove egli è detto “Sordel de Goi”, e, dato risolutivo, da documenti ufficiali di età angioina, dove è chiamato “Sordellus de Godio”, secondo le generalità da lui stesso dichiarate. La biografia più breve lo dice nato invece a “Sirier”, una delle corti o dei piccoli villaggi sparsi sul territorio di Goito, diversamente identificata dagli studiosi moderni: nella odierna località di Sereno, a poca distanza dal centro, oppure in quelle di Cerlongo o di Cereta o di Cerri, queste ultime due però nel territorio di Volta Mantovana.

Né le biografie né le altre fonti ci forniscono la data di nascita di Sordello, che si presume sia nato negli ultimi anni del secolo XII o nei primissimi del XIII. Le biografie sono invece concordi nell’affermare che Sordello apparteneva alla piccola e povera nobiltà di campagna: la prima lo dice “cattano”, che nella gerarchia feudale del tempo equivaleva a piccolo vassallo; la seconda lo definisce figlio di un cavaliere, però povero. Notizia questa assai credibile, perché molte erano allora le famiglie della nobiltà rurale ridotte in precarie condizioni economiche: ciò spiega perché Sordello abbandonò presto il luogo natale per andare a cercare fortuna nelle corti.

Sordello compì il suo noviziato poetico, ed ebbe probabilmente la sua scuola, alla corte dei marchesi d’Este, che aveva allora la sua sede principale nel castello di Calaone, sui colli Euganei, vicino ad Este (raso al suolo dai padovani nel 1293), ed aveva raggiunto agli inizi del Duecento potenza e splendore. Nell’Italia nord-orientale, in quella Marca Trevigiana (nell’accezione che aveva al tempo, e quindi comprendente, oltre a Treviso, Padova, Vicenza e Verona) che era divenuta assai presto il maggiore centro di diffusione della cultura provenzale in Italia, la corte estense fu la prima corte veneta a richiamare i giullari e i trovatori che avevano lasciato la Provenza. E qui dobbiamo parlare, se pur brevemente, della letteratura provenzale, affinché riesca chiaro ciò che diremo in seguito.

Quella provenzale fu una letteratura spiccatamente lirica, i cui testi erano destinati non alla lettura ma all’ascolto (trobador, “trovatore”, era infatti colui che componeva sia il testo poetico sia la melodia che lo accompagnava). La poesia dei trovatori, nata verso la fine del secolo XI nell’ambiente raffinato delle corti della Provenza, esaltava la cortesia, la lealtà, il senso della misura, la liberalità, insomma le virtù “cortesi”, che doveva necessariamente possedere un cavaliere che vivesse alla corte e che aspirasse all’amore di una dama. La sua tematica più significativa fu quella amorosa, ma accanto a questa troviamo anche quella morale e politica.

A disgregare il mondo provenzale e a sconvolgerne la splendida civiltà era stata la crociata voluta da papa Innocenzo III contro la setta ereticale dei “càtari”, che avevano la loro roccaforte nella città di Albi, in Linguadoca, e che fu detta perciò crociata contro gli Albigesi (1209-1213); una crociata sostenuta, per ragioni politiche, dalla monarchia francese, che meno di quarant’anni più tardi avrebbe messo le mani sulla Provenza con Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX. L’abbandono forzato della Provenza, dopo la crociata contro gli Albigesi, da parte di molti trovatori, diretti soprattutto verso la Spagna e l’Italia, contribuì a diffondere ancora più ampiamente la cultuta e la poesia trobadorica. In Italia essi furono accolti nelle corti feudali del Nord, dai marchesi del Monferrato ai conti di Savoia, dai Malaspina in Lunigiana ai Da Romano a Treviso ai marchesi d’Este.

Proprio la corte estense aveva conosciuto durante la giovinezza di Azzo VII una ricca fioritura di poesia galante di lode e d’amore intorno alle nobildonne di casa d’Este, in primo luogo di Beatrice, sorella di Azzo VII, che dopo una giovinezza brillante e mondana, e quando pareva destinata a nozze regali, si ritirò improvvisamente dal mondo nel 1220, entrando in convento. Beatrice fu oggetto di adorazione e di corteggiamento poetici da parte dei trovatori che la circondavano, particolarmente del tolosano Aimeric de Peguilhan, il più importante dei trovatori provenzali alla corte estense, e di Lambertino (o Rambertino) Buvalelli, magistrato bolognese dilettante di poesia (che era stato podestà di Mantova per due anni, nel 1215-1216, e che alcuni studiosi hanno indicato, nel periodo della sua permanenza a Mantova, come maestro di Sordello).

Dopo la monacazione di Beatrice, fu Giovanna, prima moglie di Azzo VII, da questi sposata nel 1221 e morta nel novembre del 1223, ad ispirare la poesia dei trovatori e dei giullari alla corte estense. E tra i giovani giullari che sempre più numerosi invadevano le corti grandi e piccole della Marca Trevigiana (in quegli anni, oltre a quella estense, quella dei Da Romano, soprattutto a Treviso con Alberico, e dei San Bonifacio a Verona), avidi di ricompense da parte dei signori, in lotta tra loro e in concorrenza spesso sleale con i trovatori più anziani, cominciò presto a distinguersi Sordello, che troviamo ricordato per la prima volta in un vivace sirventese satirico del già ricordato Aimeric de Peguilhan, vecchio e onorato professionista della poesia alla corte d’Este, composto probabilmente nell’estate del 1220:

I matti e i ruffiani e i compari

diventano troppi, e questo non mi piace;

e i vili giullaretti novelli,

importuni e maldicenti,

corrono un po’ troppo avanti;

e sono già, i mordaci,

per uno di noi due di loro;

e non c’è nessuno che dia loro una buona lezione!

Mi pesa che si accetti da loro tutto questo

e non si opponga loro nessuna resistenza;

e non dico questo contro il signor Sordello,

perché egli non sembra uno di loro

e non va certo in cerca di favori

come fanno i cavalieri dottori,

ma, quando gli manca chi gli presti denaro,

egli non può far cinquina e l’altro terno.

 

Aimeric sembra presentare Sordello come un accanito giocatore di dadi, spesso costretto a rinunciare al gioco quando si trova a corto di denaro e nessuno glielo presta. Ma c’è chi ha interpretato in modo diverso gli ultimi due versi, vedendovi un Sordello emerito truffatore, in quanto guadagna sul denaro prestato più di chi presta per professione. È comunque notevole che a Sordello venga già attribuita la particella onorifica “signor”: certo, pur condividendo con i giullari la vita sregolata (taverna, gioco, donne e risse), egli dovette ben presto distinguersi per il suo ingegno, la sua fierezza e per le sue doti poetiche e musicali, come ricorda espressamente la biografia più ampia.

Ad aprirci uno squarcio della rissosa vita di taverna dei giullari è uno scambio di coblas (Anc al temps d’Artus ni d’ara, “Mai al tempo di Artù né ai nostri tempi”), difficilmente databile, fra Aimeric e Sordello, fra i quali non correva buon sangue. Nei versi di Aimeric è una vivacissima caricatura di Sordello, il quale ha ricevuto in testa un colpo di boccale senza reagire:

Mai al tempo d’Artù o oggidì

credo si sia visto

un colpo così bello come quello che Sordello

si prese sul ciuffo con un boccale; e se il colpo non fu

mortale, ne ebbe colpa quello che lo pettinò così;

ma lui è così umile e franco di cuore

che incassa tranquillo ogni colpo,

quando ha visto che non c’è sangue.

 

Accusato, anche se non esplicitamente, di essere un vile, Sordello reagisce violentemente accusando a sua volta Aimeric di essere avaro, e ne deride la bruttezza e la pretesa di voler fare il galante malgrado l’età avanzata:

 

Non credo che mai si sia vista

una persona avara

come quel vecchio accattone meschino

che è ser Amerigo dalla triste figura:

chi lo vede ha peggio che morte.

E per quanto abbia il corpo torto

e magro e secco e vizzo e sciancato e zoppo,

si vanta mille volte di cose che non ha mai fatto.

 

In una tenzone dello stesso Aimeric con un altro trovatore tolosano, Guilhem Figueira, si parla di una memorabile partita a scacchi svoltasi a Brescia, durante la quale un giullare, Bertran d’Aurel, per disfare lo scacco aveva minacciato col coltello un certo ser “Guilhem del Dui-fraire”, che viene chiamato da Aimeric “maiestre d’en Sordel”. Ma qui non si deve intendere, come è stato fatto, questo “Dui-fraire” come maestro di scacchi di Sordello: il significato di quella frase è più nascosto e per svelarlo occorre richiamare altri testi. Questo “Dui-fraire” ritorna infatti, pur con diverso nomignolo, in diverse schermaglie fra trovatori e in caricature verbali come un personaggio ridicolo, vittima designata di colpi di coltello, di spada o di corpi contundenti meno nobili, come una pagnotta secca, simile al vaso che l’”allievo” Sordello aveva ricevuto sulla zucca senza protestare. Il “maestro” di Sordello potrebbe essere il trovatore Guilhem de la Tor, che in quegli anni operava negli stessi luoghi del nostro e al quale quel titolo potrebbe convenire meglio che ad altri, fra i personaggi noti, non certo per gli scacchi, ma in senso generale, e forse con allusione alla fama di remissività e di codardia di cui egli godeva: quindi, indirettamente, Aimeric accuserebbe ancora una volta Sordello di essere un vile. Tra l’altro, fra i primi componimenti di Sordello c’è un partimen, Uns amics et un’amia (“Un amico e un’amica”), databile intorno al 1220, il cui tema, se un amante che perde l’amica del cuore debba vivere o morire, fu proposto proprio da Guilhem de la Tor.

Probabilmente degli stessi anni è una cobla esparsa di un anonimo, il quale dice di perdonare volentieri a Sordello le offese da lui ricevute, perché a punirle ci ha pensato il suo stesso rovinoso vizio del gioco, che gli ha fatto perdere tutto, persino il destriero e due palafreni, sicché per attraversare i fiumi dove non vi sia passaggio adeguato egli è costretto a spogliarsi e a mostrare le natiche:

E tutte le offese che mi ha fatto quest’anno

volentieri le perdono a ser Sordello,

perché egli stesso farà la mia vendetta col gioco,

sicché non vale la pena che io lo uccida col coltello;

sapete bene che egli si è giocati entrambi i suoi palafreni

e il suo destriero tutti e tre:

se arriva a un fiume, e non c’è guado nè ponte,

si spoglia e mostra le sue rotondità.

 

Particolarmente interessante è il dettaglio dei cavalli perduti al gioco, che ci mostra come Sordello fosse preoccupato di distinguersi pure come cavaliere, anche se era spiantato e gli capitava di perdere la cavalcatura giocando d’azzardo.

Questo anonimo trovatore che si mostra così aggressivo nei confronti di Sordello e che sa usare bene non solo il coltello ma anche il verso potrebbe essere il già ricordato Figueira, contro il quale Sordello aveva indirizzato una cobla esparsa, in cui parla in termini caricaturali e iperbolici di una ferita procurata a Figueira da quel terribile spadaccino che fu il trovatore provenzale Guilhem Augier Novella:

Anche se Figueira mi assale nei suoi sirventesi

con la sua lingua falsa e menzognera,

mi tocca sopportarlo per la paura che ho che mi ferisca

di spada, come ferì lui messer Augier,

quando né cuffia né visiera non valsero

ad impedire che gli squartasse la gota;

e ne ebbe pace sicura in maniera tale

che il medicarsi non gli costò due denari.

 

Più volte Sordello si difese dall’accusa di essere un giullare, come nella sua tenzone con Joan d’Albusson, Digatz mi s’es vers zo c’om brui (“Ditemi se è vero ciò che si proclama”), il quale gli rinfacciava di aver ricevuto in dono delle stoffe da Azzo VII, ulteriore prova del soggiorno di Sordello alla corte d’Este:

“Sordello, la povertà vi induce,

si dice, a fare il giullare”.

“Giovanni, io non faccio il giullare

se non per dire bene della mia amica”.

“Poiché non siete un giullare, come mai accettaste,

Sordello, tempo fa delle stoffe dal marchese?”

“Giovanni, io non le ho prese

se non per fornire di abiti un giullare”.

“Sordello, voi li deste ad un tal giullare,

che so che vi segue notte e giorno”.

“Giovanni, per amore io sono cortese, e ho fatto doni”.

 

Sordello, che non può negare il dono del marchese, afferma di averlo usato per rivestire un giullare povero.

Ma Sordello fu anche un gran dongiovanni, come ci ricordano la biografia più ampia ed egli stesso, con grande spavalderia, in diverse sue poesie. Ma di questo diede clamorosa prova quando, compiuto il suo tirocinio di giullare, passò, non si sa quando, forse intorno al 1225, dalla corte dei marchesi d’Este a quella amica dei conti di San Bonifacio a Verona. E qui Sordello si rese protagonista di un’impresa che per lo scandalo che suscitò gli diede una straordinaria notorietà, ben più vasta e clamorosa di quella che gli avevano procurato le poesie fino ad allora composte, alimentandone così la leggenda: il rapimento di Cunizza da Romano dalla casa del marito, Rizzardo di San Bonifacio.

L’irrequieta sorella di Ezzelino e di Alberico era andata sposa a Rizzardo nel 1222, quando le due casate tradizionalmente nemiche si erano, se pur temporaneamente, pacificate, suggellando l’accordo con un duplice matrimonio, avendo contemporaneamente Ezzelino sposato la sorella di Rizzardo, Zilia. Il fatto successe nel 1226, quando i rapporti tra i Da Romano e i San Bonifacio tornarono, dopo una breve tregua, ad essere pessimi, ed Ezzelino riuscì ad impadronirsi di Verona, divenendone podestà all’inizio di giugno, con l’aiuto delle fazioni veronesi nemiche dei San Bonifacio. Il rapimento di Cunizza avvenne non per iniziativa personale di Sordello, ma fu compiuto su commissione di Ezzelino, che probabilmente intendeva sottrarre la sorella alle inevitabili conseguenze della lotta da lui ripresa con i San Bonifacio.

Sordello amò Cunizza e il loro amore probabilmente non fu soltanto letterario e poetico: correva fama, e non solo negli ambienti politicamente ostili ad Ezzelino, che Sordello ne fosse divenuto l’amante. Il rapimento di Cunizza suscitò enorme e diffuso scalpore, se ancora parecchi anni dopo in Provenza lo ricordava il trovatore Reforsat de Trets facendo l’elogio di Sordello:

Sordello è stimato come cavaliere leale,

perché lealmente egli seppe innalzare con le sue lodi

la donna che egli fece fuggire di notte dalla sua dimora,

per la qual cosa egli portò fra noi i suoi penati.

 

Delle poesie di Sordello in lode di Cunizza non ci è rimasto nulla; molte furono invece le chiacchiere suscitate nei contemporanei, specie negli ambienti di corte, dalle avventure di Cunizza.

Ma dopo il rapimento di Cunizza l’intraprendente trovatore si rese protagonista di un’altra avventura, non meno clamorosa delle precedente anche se minore fu la sua risonanza: un matrimonio segreto con una nobildonna. Dopo il rapimento di Cunizza Sordello si sarebbe rifugiato nel castello di Ezzelino a Oderzo, e di lì sarebbe passato in quello vicino di Levada, non lontano da Ponte di Piave, sul confine del territorio di Ceneda, presso Enrico e i figli Guglielmo e Valpertino di Strasso, amici dei Da Romano: qui Sordello si innamorò di Otta, figlia di Enrico, e la sposò segretamente.

Dopo il matrimonio con Otta di Strasso, Sordello si sarebbe recato a Treviso presso Ezzelino, quindi non prima della seconda metà del 1227, quando Ezzelino, lasciata la carica di podestà di Verona, stabilì a Treviso il suo quartier generale. Ma Sordello, che per ben due volte aveva abusato della fiducia dei suoi ospiti, doveva sentirsi in pericolo, nonostante la protezione del potente Ezzelino. Quindi per sfuggire alla vendetta degli Strasso, avendo sposato Otta senza il consenso dei parenti, e di Rizzardo di San Bonifacio, offeso per il rapimento di Cunizza, o forse avvertendo di non essere più nelle grazie di Ezzelino, il quale certo non dovette gradire i rapporti del trovatore con la sorella, che divenuti di pubblico dominio gettavano un’ombra poco onorevole sui Da Romano, Sordello partì, non sappiamo precisamente quando, certo non più tardi del 1229, alla volta della Provenza, accompagnato dalla fama di poeta ma ancor più di cortigiano e di dongiovanni, così clamorosamente affermata.

In una sua lirica, il trovatore provenzale Uc de Saint-Circ, che stabilitosi a Treviso era divenuto il poeta di corte dei Da Romano, particolarmente di Alberico, si prende gioco con elegante malizia di un dongiovanni giramondo, indicato con il senhal “Vita Mia”, il quale è appunto Sordello:

Una danzetta voglio comporre,

scherzando e ridendo,

intorno a Vita Mia, a cui Dio conservi

il bell’intelletto,

con la quale mi rallegrerò il cuore dolente.

(Ritornello)

Con dolce canto,

danzando,

voglio che per conforto se ne vada

tentando

e seducendo

e ingannando le donne.

Il suo bell’ingegno gli consiglia di cambiare

spesso domicilio,

sicché è venuto a stabilirsi qui,

e va cercando

un’altra da poter ingannare,

e che sia ricca !

Ritornello

O terra di Mantova e di Verona,

io l’ho perduto (come voi),

e Treviso e il Cenedese

so che lo stesso han fatto,

e se anche il Vicentino lo perde,

dove lo accompagnerò ?

Ritornello

In Alvernia, nel Forez

e nel Velay,

dove non sanno chi è

né i tiri che combina;

poi me lo tiro dietro nel Viennese,

ad Annonay.

Ritornello

 

Dalla terza strofetta si ricavano i luoghi in cui aveva vissuto e operato Sordello, dal Mantovano al Veronese al Cenedese a Treviso fino al Vicentino, dove allora Sordello, sulla via della Provenza, si trovava; e accanto a lui doveva trovarsi Uc, che, stando alla quarta strofetta, gli preparava l’itinerario del viaggio verso la terra promessa dei trovatori.

 

Ilvano Caliaro ed Emilio Faccioli

 

 

GLI ANNI IN PROVENZA

Sordello raggiunse la Provenza a tappe, fermandosi brevemente presso le varie corti che incontrava sul suo cammino. Dapprima anche in Provenza non si trattenne a lungo, varcando ben presto i Pirenei. In Spagna soggiornò presso Ferdinando III re di Leòn e di Castiglia, ma anche presso altri principi, che con lui furono più generosi di Ferdinando III (di cui avrebbe spregiativamente detto nel compianto per la morte de ser Blacaz: “tiene due reami, e non vale [nemmeno] per uno”), come l’allora giovanissimo Giacomo I d’Aragona (colui che, nella generale mediocrità e decadenza dei principi e signori del tempo, “sostiene il più pesante carico del pregio”, come lo avrebbe definito nel sirventese Qui be:is membra del segle qu’es passatz, “Se ben si pensa al tempo che è passato”).

Non è probabile invece un suo soggiorno in Portogallo, cui hanno fatto pensare i suoi rapporti abbastanza stretti con due trovatori portoghesi, Joan Soarez Coelho e Picandon, ch’egli conobbe verosimilmente in una delle corti di Spagna delle quali fu ospite.

Sordello rimase comunque assai poco in Spagna. Ripassati i Pirenei, ritornò in Provenza, dove, nel 1230-1231 pare aver soggiornato presso Savaric de Mauléon, siniscalco del Poitou, generoso protettore di trovatori e trovatore egli stesso. Nel giugno del 1233 lo troviamo alla corte di Raimondo Berengario IV conte di Provenza, dove sarebbe rimasto anche dopo la morte del conte, nel 1245: lo attesta un documento del 28 giugno 1233, nel quale è citato tra i baroni del seguito di Raimondo Berengario IV, segno che già allora godeva di un notevole prestigio presso la corte di Provenza.

Altri atti ufficiali di quegli anni ci mostrano come Sordello fosse ben presto entrato nella cerchia dei consiglieri e collaboratori più stretti del conte di Provenza, dal quale ricevette il titolo di miles, “cavaliere”, e il possesso di feudi. Prova indiscutibile dell’altissima posizione da lui raggiunta presso la corte di Raimondo Berengario IV è un altro atto ufficiale, quello relativo all’accordo stipulato il 5 giugno 1241 a Montpellier tra il conte di Provenza, Giacomo I d’Aragona e Raimondo VII di Tolosa, per decidere il divorzio tra quest’ultimo e Sancia d’Aragona (zia di Giacomo I), al fine di aprire la strada al matrimonio, che non sarebbe poi avvenuto, tra Raimondo VII di Tolosa e Sancia, terza figlia di Raimondo Berengario IV, erede della contea di Provenza. Ebbene, in questo atto, tra i testimoni citati, Sordello figura al terzo posto, subito dopo due grandi vassalli del re d’Aragona, sicché è lecito pensare che egli fosse considerato uno dei più alti personaggi al seguito del conte di Provenza. Sordello aveva raggiunto una posizione sociale ben superiore a quella che aveva avuto in Italia, dove pure era stato uomo di corte presso Rizzardo di San Bonifacio prima ed Ezzelino da Romano poi. In Provenza, inoltre, il nostro trovatore, secondo la biografia più breve, avrebbe preso moglie.

Anche se si era stabilito presso la corte di Provenza, non è escluso che Sordello abbia soggiornato per qualche tempo anche in altre città della regione, come Rodez, Posquières e forse Tolosa. Alle prime due ci rimanda la donna che occupa il primo posto tra quelle da lui cantate, Guida, figlia di Enrico I e sorella di Ugo IV conti di Rodez. Dopo il matrimonio nel 1235 con Pons barone di Montlaur nel Vivarais, Guida visse tra Rodez e i possedimenti del marito, tra i quali appunto Posquières (oggi Vauvert, nel dipartimento del Gard), e in questi luoghi Sordello ebbe occasione di incontrarla, di conoscerla e di ammirarla. A lei il nostro trovatore indirizza esplicitamente una canzone, Aitant ses plus viu hom quan viu jauzens (“Si vive soltanto quando si vive nella gioia”), dove si legge:

Tanto penso a lei, e tanto l’amo di cuore,

che temo che notte e giorno non mi bastino a pensarla,

poiché non ha pari in bellezza e virtù.

Per questo debbono cedere a lei

le donne più pregiate, poiché essa è guida

nel guidare, gentile e perfetta,

le valenti in pregio, come le navi in mare guidano

la stella polare e l’ago calamitato.

E poiché la ferma stella lucente

guida le navi che vanno perigliose per il mare,

ben dovrebbe colei, che le somiglia, guidare me,

che per lei sono nel mare così profondamente

sperduto, abbattuto e turbato,

che vi morirò e perirò prima che io ne esca,

se lei non mi soccorre, poiché non trovo, per uscire,

né riva né porto, guado né ponte né ricovero.

 

Sordello canta Guida di Rodez anche in altre canzoni, celandola dietro il senhal di “N’Agradiva” o di “Restaur” (“Ristoro”). Nella poesia di Sordello s’incontrano anche altre donne, ma in occasionali omaggi letterari più che in componimenti ispirati al “servizio d’amore” provenzale intimamente sentito.

In quegli anni Sordello non compose soltanto liriche d’amore, ma anche poesie d’ispirazione politica, tra le quali spicca il celebre e già ricordato compianto in morte di ser Blacatz, composto intorno al 1237, che ebbe subito vastissima risonanza.

Ad accrescere il prestigio e la fama di Sordello contribuirono i suoi rapporti con i più noti trovatori del tempo, non solo con Bertran d’Alamanon e Peire Bremon Ricas Novas, che vissero a lungo, come lui, alla corte di Provenza, ma anche con Peire Guilhem, Granet, Guilhem Montanhagol, Montan e Reforzat. I rapporti più riccamente testimoniati dalle poesie rimasteci sono quelli con D’Alamanon, sempre improntati a grande cordialità, e quelli con Ricas Novas, i quali, dapprima amichevoli, in seguito si guastarono, giungendo fino allo scambio di ingiuriosi sirventesi negli anni 1240-1241. Ricas Novas avrebbe subìto un torto da parte di Raimondo Berengario IV, e Sordello e D’Alamanon non sarebbero intervenuti in suo favore e non gli avrebbero neppure espresso la loro solidarietà per timore di perdere le grazie del conte di Provenza; mentre secondo Sordello il silenzio suo e di D’Alamanon furono dettati dal comportamento sleale di Ricas Novas nei confronti del signore. La causa profonda del dissidio fu comunque l’invidia che Ricas Novas nutriva nei confronti di Sordello, che nel giro di pochi anni si era guadagnato grande prestigio e larga fama sia come cavaliere sia come trovatore.

Senza nominarlo, ma riferendosi chiaramente a Ricas Novas, nel primo sirventese contro di lui, Qan q’ieu chantes d’amor ni d’alegrier (“Benché io abbia cantato l’amore, l’allegrezza”), Sordello lo aggredisce con ingiurie:

Colui che lo conosce lo tiene in conto di menzognero,

fiacco e vile, spregevole e millantatore.

Egli infatti con il suo rozzo aspetto, falsamente grazioso e dolce,

si atteggia a uomo cortese, e non vale un denaro,

perché le [sue] parole sono grandi e le azioni sono dappoco,

cosiccé tra i prodi non è stimato un chiodo.

 

Sempre senza nominare l’avversario, Ricas Novas risponde alludendo alla fuga di Sordello dall’Italia, ma soprattutto insistendo su un’accusa cui Sordello era particolarmente sensibile, quella d’essere un “giullare in armi”, un giullare travestito da cavaliere, alla ricerca di omaggi e di ricchezze invece di onore. Sordello si ribella orgogliosamente ad un’accusa che lo perseguitava e lo faceva incollerire, accusando a sua volta Ricas Novas d’infedeltà: prova ne è ch’egli non ha esitato a lasciare Barral de Baus, il siniscalco di Marsiglia, per acquistare il favore del conte di Tolosa, che giustamente si rifiuta di accoglierlo alla sua corte. Così Sordello nel secondo sirventese contro Ricas Novas, Lo reproviers vai averan, so:m par (“Si va avverando il proverbio, mi sembra”):

Ha davvero gran torto a chiamarmi giullare,

perché lui va dietro gli altri, mentre gli altri vengono a me,

e io dono senza prendere, mentre egli prende senza donare,

poiché si mette adosso tutto quello che riceve per pietà;

io invece non prendo nessuna cosa da cui mi possa venire disonore,

anzi spendo le mie rendite e non voglio altra ricompensa

se non d’amore: mi pare, dunque, che egli si abbassi

ed io m’innalzi, se ci giudicano secondo giustizia.

[ … ]

Ben ha saputo onorarlo il valente conte

di Tolosa, proprio come si conviene,

facendolo ritornare graziosamente a Marsiglia,

poiché aveva abbandonato il suo signore e la sua fedeltà;

ma egli non teme vergogna, né si affligge

per ciò per cui sempre dovrebbe essere desolato,

questo perfido vigliacco che ha nome, poiché sfugge il pericolo,

“cuor di coniglio sotto apparenza di leone”.

 

Ad un nuovo sirventese di Ricas Novas, in cui questi dichiara esplicitamente che il bersaglio delle sue accuse è Sordello, il nostro risponde ribadendo con forza contro l’avversario l’accusa di infedeltà, augurandosi che Barral de Baus si liberi al più presto dell’infido trovatore. Così nel terzo sirventese contro Ricas Novas, Sol que m’afi ab armas tos temps del sirventes (“Solo che io abbia sempre fiducia nelle armi del sirventese”):

Egli si crede molto abile e saggio; tuttavia la sua saggezza è tale,

che il conte di Provenza, con suo torto, l’ha allontanato da sé,

e l’altro conte non lo vuole, poiché sa chi è e quale egli è,

e si dice che i Templari e gli Ospitalieri lo respingano,

poiché tra di loro non vi è posto per un uomo vile e sleale.

Ben mi meraviglio come lo possa trattenere presso di sé messer Barral,

giacché egli non è capace di alcuna cosa a vantaggio di prode signore,

poiché ha il corpo grande e lungo e il cuore piccolo e falso.

 

Ricas Novas a sua volta ribatte che se Barral vorrà cacciarlo dalla sua corte egli chiederà informazioni su ospiti generosi proprio a Sordello, facendo implicitamente capire che Sordello di fughe se ne intende. E qui si chiude, sulla base dei componimenti rimastici, il duello verbale tra Sordello e Ricas Novas.

Raimondo Berengario IV morì nell’agosto del 1245. Poco dopo Carlo d’Angiò, con il decisivo appoggio della madre Bianca di Castiglia, regina madre di Francia, e del papa Innocenzo IV, sposava, nel gennaio 1246, Beatrice, l’ultima figlia di Raimondo Berengario IV ed erede della contea di Provenza. Carlo d’Angiò divenne quindi signore della Provenza, vanificando le aspirazioni degli altri pretendenti, Raimondo VII di Tolosa, il figlio di Giacomo I d’Aragona e Corrado IV figlio dell’imperatore Federico II.

Sordello, che dopo la morte di Raimondo Berengario IV era rimasto alla corte di Provenza presso la contessa Beatrice, accolse con favore il nuovo signore, al quale sarebbe rimasto fedele fino alla morte. A Carlo d’Angiò egli indirizzò subito un sirventese, Ar hai proat q’el mon non ha dolor (“Ora ho provato che nel mondo non c’è dolore”), di cui ci resta un frammento, nel quale il nostro trovatore esorta il ventenne principe, fino a quel momento dedito soprattutto agli svaghi e ai piaceri, a compiere nobili imprese:

In un barone che a vent’anni non comincia

a compiere nobili imprese, e che pensa soltanto ai divertimenti,

nessuno deve riporre [qualche] speranza, dovesse vivere cent’anni;

poiché le imprese migliori si accordano con la gioventù.

Per questo prego il mio signore che tosto

incominci a compiere nobili imprese, se vuole acquistare pregio;

infatti se da giovane non acquista un alto pregio,

difficilmente questo sarà da lui acquistato durante la sua vita.

 

L’ambizioso principe angioino si volse ben presto a quelle nobili imprese cui Sordello, seguendo una consuetudine della lirica provenzale, lo aveva chiamato. La prima di tali imprese fa la partecipazione nel 1248 alla settima crociata, promossa dal fratello, Luigi IX, re di Francia. Sordello, che forse era stato sollecitato ad unirsi alla spedizione, non volle seguire Carlo a causa del suo grande timore del mare, proponendogli, in Lai al comte mon segnor voill pregar (“Voglio inviare una preghiera là, al conte mio signore”), di prendere con sé al suo posto l’amico Bertran d’Alamanon, definito scherzosamente marinaio provetto e conoscitore dei venti:

Ancora non sono tanto esperto del mare,

benché in esso sia stato ben istruito, da poter

passare oltremare, qualunque sforzo io facessi;

perciò voglio pregare il conte che non gli rincresca

se non passo [il mare] con lui; infatti io non debbo essere biasimato,

perché temo tanto fortemente il mare, quando è cattivo il tempo,

che non posso andare oltremare per nessun motivo (così io penso),

e il conte non deve punto volere che io muoia.

Ma se [il conte] vuole con sé un marinaio ben esperto

del mare, conduca messer Bertrando d’Alamanon, se gli piace,

poiché io so che [ciò] gli è gradito,

ed egli sa tanto bene quali sono i venti migliori,

che in un giorno va e se ne torna facilmente;

e il conte lasci me, che non ho né possibilità né voglia

di passare il mare per tutta la mia vita,

tanto la morte mi fa paura e spavento.

 

Carlo d’Angiò salpò alla volta della Terrasanta alla fine di agosto del 1248 e rimase lontano dalla Provenza per due anni. Non sappiamo nulla della vita di Sordello in questo periodo, durante il quale baroni e città della Provenza, che non sopportavano più il sistema fiscale angioino eccessivamente gravoso, approfittarono della lontananza di Carlo per ribellarsi al suo potere: probabilmente Sordello continuò a vivere alla corte, presso Beatrice e il siniscalco angioino Amaury de Thury.

Nell’ottobre del 1250 Carlo faceva ritorno in Provenza e subito intraprendeva, con l’aiuto del fratello Alfonso di Poitiers, un’energica azione per domare la ribellione, ottenendo rapidi successi: tra l’aprile e il novembre del 1251 si sottomettevano Arles, Avignone e Marsiglia. In due atti ufficiali del luglio del 1252, in cui è designato ancora con il titolo di miles, Sordello è citato come testimone accanto a personaggi del calibro di Barral de Baus, siniscalco di Marsiglia, che da fiero avversario di Carlo d’Angiò era diventato uno dei suoi più autorevoli e potenti sostenitori.

Sordello rimase in Provenza anche durante il lungo periodo, tra l’inverno del 1252 e la primavera del 1257, in cui Carlo d’Angiò ne fu lontano, prima perché reggente, insieme con il fratello Alfonso di Poitiers, del regno di Francia, nel tempo intercorso tra la morte della regina madre Bianca di Castiglia e il ritorno di Luigi IX dalla crociata; poi perché impegnato nella conquista della ricca contea dell’Hinnaut, che pur non realizzata gli fruttò una notevole indennità di guerra. In quel tempo Sordello fu ospite, anche per periodi prolungati, di Barral de Baus, il quale nel dicembre del 1255 gli fece un cospicuo dono in denaro.

La presenza di Sordello in Provenza in quegli anni è attestata da numerosi atti ufficiali stesi tra il 1255 e il 1265, nei quali è citato fra i testimoni con il titolo di miles o di dominus (“signore”), confermando di aver mantenuto alla corte angioina la posizione di grande prestigio raggiunta presso il precedente conte di Provenza, Raimondo Berengario IV. Va particolarmente ricordato l’atto con il quale, nel luglio del 1262, vennero composti i dissidi sorti tra Carlo d’Angiò, in quanto signore di Ventimiglia, e il comune di Genova: in esso Sordello è detto “Sourdello de Godio”, appellativo che sarebbe ricorso d’allora in poi negli atti angioini che riguardano il nostro trovatore e che ne confermano la nascita a Goito.

Conte di Ventimiglia dal 1258 e signore di Cuneo dal luglio del 1259, Carlo d’Angiò stipulava nel gennaio del 1265 un’alleanza con la potente famiglia milanese dei Torriani e con i comuni di Lodi, Como, Bergamo e Novara. Questo patto preludeva alla sua spedizione in Italia, promossa e favorita dal papa Urbano IV, acerrimo nemico degli Svevi. Questa volta Sordello seguì il suo signore, ma, poco incline ai viaggi per mare, come si è visto in occasione della crociata del 1248, entrò in Italia col grosso dell’esercito angioino, che partito dalla Provenza nell’autunno del 1265 era giunto in Piemonte nel novembre, mentre Carlo, imbarcatosi a Marsiglia con cinquecento cavalieri e mille balestrieri, già nel maggio precedente era sbarcato sulla costa laziale ed era entrato in Roma, dove era stato incoronato dal papa re di Sicilia.

[Capitolo tratto da: Emilio Faccioli, Sordello da Goito, Tipografia Grassi, Mantova, marzo 1994, pagg. 27-52]

 

 

IL RITORNO IN ITALIA

Sordello rimetteva piede in patria dopo ben trentacinque anni di assenza, ormai vecchio, e in condizioni ben diverse da quelle in cui era partito nella sua avventurosa giovinezza, che era ormai un lontano ricordo. Vi tornava cambiato, in un’Italia anch’essa mutata, dove molti di coloro che aveva conosciuto o al cui fianco aveva vissuto non c’erano più: Rizzardo di San Bonifacio, cui aveva rapito la moglie, Cunizza da Romano, era morto nel 1253; ed erano scomparsi, con la rovina totale della loro signoria, Ezzelino da Romano, morto a Soncino nell’ottobre del 1259 in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Cassano d’Adda, e suo fratello Alberico, trucidato ferocemente con la moglie e i figli nell’agosto del 1260. Della potente casata rimaneva in vita, e lo sarebbe rimasta a lungo (lo era ancora nel 1279), soltanto Cunizza, che aveva trovato rifugio in Toscana; e anch’essa, come il suo antico amante, sarebbe stata immortalata da Dante nella Divina Commedia: addirittura, lei peccatrice d’amore convertita, nel Paradiso.

Non sappiamo esattamente quali luoghi abbia toccato Sordello appena giunto in Italia. È certo che nel settembre del 1266 si trovava a Novara, in carcere, non si sa per quale ragione. Per la sua liberazione si mosse addirittura il nuovo papa, Clemente IV, il quale in un breve di quel settembre rimproverava Carlo d’Angiò di aver trattato con poca generosità coloro che lo avevano servito fedelmente, citando come esempio proprio Sordello, ricordato dal papa con solenni parole di elogio, prova del grande prestigio di cui il nostro trovatore godeva al suo tempo. L’intervento di Clamente IV affrettò la scarcerazione di Sordello, sicuramente libero, e forse presso lo stesso Carlo d’Angiò, nel maggio del 1267.

Il principe angioino cercò di riparare prontamente all’ingratitudine nei confronti del suo fedele cavaliere investendolo dei diritti feudali sul castello di La Morra, nel cuneese, un primo risarcimento in attesa di ricompensarlo più adeguatamente dopo la piena sottomissione del regno di Napoli. Infatti, dopo che la battaglia di Tagliacozzo nell’agosto del 1268 e la morte di Corradino di Svevia gli ebbero assicurato definitivamente il dominio sull’Italia meridionale, Carlo d’Angiò nel marzo del 1269 lo investì dei diritti feudali sui castelli abruzzesi di Monte Odorisio, Monte San Silvestro, Paglieta e Pila, e sul casale di Castglione, feudi che complessivamente fruttavano una rendita notevole. Nell’atto d’investitura Sordello è designato con i titoli di miles e di dilectus familiaris noster (“familiare diletto e nostro fedele”), dei quali è particolarmente notevole quello di familiaris, concesso ai baroni più legati alla corte e di più alto lignaggio, titolo cui si accompagnavano particolari diritti e speciali distinzioni a corte.

Nel maggio del 1269 Carlo d’Angiò aggiungeva alle precedenti una nuova donazione, il castello di Civitaquana in Abruzzo. Nel giugno successivo Sordello restituiva i castelli di Monte San Silvestro, Pila e Paglieta, ricevendone in cambio quelli di Ginestra e di Palena, sempre in Abruzzo, il cui borgo era famoso per le sue tintorie e le sue gualchiere (macchine usate in passato per trasformare in feltro i tessuti di lana): feudi, questi, che complessivamente davano una rendita ancora più cospicua dei precedenti.

Forse Sordello non fu contento di tali donazioni, o perché potevano parergli esigue rispetto a quelle fatte ad altri baroni o perché situate in luoghi scomodi. Ci è infatti rimasto uno scambio di coblas, Toz hom me van disen en esta maladia (“Tutti mi vanno dicendo in questa malattia”), nel quale Sordello si lamenta dell’avarizia del suo signore:

Tutti mi vanno dicendo in questa malattia

che se io mi confortassi mi farebbe gran bene.

Ben so che essi dicono il vero, ma come potrebbe far ciò

un uomo che è povero d’averi ed è sempre malato,

e sta male in fatto di signore, d’amore e d’amicizia ?

Se vi fosse chi mi insegnasse ciò, ben mi conforterei.

Cui ribatte il signore, nel quale si è voluto vedere Carlo d’Angiò:

Sordello dice male di me, e non dovrebbe farmi questo,

perché l’ho sempre tenuto e lo tengo caro e onorato:

gli ho dato gualchiere, mulini e altre possessioni,

e gli ho dato moglie tale quale egli la voleva.

Ma egli è matto e noioso, ed è pieno di follia:

se uno gli donasse una contea, non gliene serberebbe gratitudine.

 

La cobla di Sordello potrebbe essere stata scritta prima della donazione dei feudi (tra i quali, nella cobla di risposta del signore, è esplicito il riferimento alle gualcherie di Polena) e quella del signore, se in questi si riconosce Carlo d’Angiò, subito dopo l’ultima donazione.

Sordello non dovette vivere a lungo: i feudi a lui assegnati venivano infatti concessi nell’agosto del 1269 a Bonifacio di Galibert, un cavaliere provenzale che aveva fatto parte anch’egli della corte di Carlo d’Angiò in Provenza, e che aveva poi, come Sordello, seguito il suo signore in Italia. Sordello morì quindi, senza eredi, nell’estate del 1269, sicuramente in Italia, verosimilmente nel regno angioino.

 [Capitolo tratto da : Ilvano Caliaro, Sordello da Goito, Casa Editrice Mazziana, Verona, ottobre 2000, pagG. 15-43.]

 

 

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