Vi elenchiamo, in questa sezione, alcuni articoli che trattano i piatti tipici della zona, per darvi un “assaggio” delle tradizioni della cucina Goitese.

Elenco degli Articoli:

Bevrin vin
La Mostarda Mantovana
I Piatti della Sagra di Torre
La Strada del Riso e dei risotti mantovani 

IL BEVRIN VIN – Ricetta per un aperitivo invernale

Nel mantovano esiste una ricetta di un aperitivo invernale che si chiama “bevrin vin”. Si tratta di una ricetta che anche altre province ne rivendicano la proprietà, ma io, che sono mantovano di Goito, cerco di difenderla dagli usurpatori.
Come tutte le ricette storiche spesso non è gradita ai giovani che sono abituati ad altri sapori e così ho apportato qualche variante alla ricetta.

Ricetta del “ bevrin vin”:

Ingredienti
– un parente
– un velo di neve o galaverna
– brodo di cappone o alla peggio di pollo
– vino rosso
– grana
– pepe (facoltativo)

Preparazione
Deve essere tassativamente preparata in una fredda giornata invernale, meglio a capodanno perché è usanza che il primo ospite a varcar la soglia il primo dell’anno debba essere un uomo, se poi la notte prima è nevicato tanto meglio. La neve non deve essere più di dieci centimetri e la temperatura sotto i due gradi.
Verso le undici del mattino, dopo aver indossato scarpe e abiti pesanti è necessario procurarsi un parente che disti almeno due chilometri e che sicuramente preparerà un brodo di cappone.
É indispensabile camminare nella neve per almeno mezz’ora nella neve e giunti dal parente, dopo gli auguri di buon anno la cuoca offrirà certamente del brodo di cappone che lei stessa avrà messo sul fuoco già dalle prime ore del nuovo anno. Vi verrà servito in una scodella al quale aggiungerete mezzo bicchiere di vino rosso non troppo invecchiato, un’abbondante quantità di grana grattugiato e una spolverata di pepe macinato al momento.
Provare per credere, ma senza la mezz’ora di marcia nella neve la ricetta non funziona.
Il rientro sarà certamente meno gelido e apprezzerete molto di più “i agnulin” fumanti che vi aspetteranno a casa.
Io che ho vissuto nel nord della Francia ho trovato una bevanda simile che si chiama viandox ma è fatta con concentrato di carne e profumata con sedano in polvere. Il freddo, da quelle parti non manca mai, quello che manca è il vino. 

Giuliano Ferrazza 

LA MOSTARDA MANTOVANA

La mostarda, una delle preparazioni più raffinate della cucina mantovana, è molto apprezzata anche sulle tavole goitesi, dove viene consumata tal quale, spesso in abbinamento con formaggio grana, o impiegata quale materia prima per la realizzazione dei tortelli di zucca. Uno dei caratteri che contribuisce a distinguere la mostarda mantovana da altri prodotti simili è il fatto che di volta in volta per la sua preparazione viene utilizzata un solo tipo di frutta, tradizionalmente identificabile nelle mele, nelle pere o nelle mele cotogne. Mantenendo questa caratteristica monospecificità, negli ultimi anni alle tipologie di mostarde più consuete se ne sono affiancate altre, ottenute a partire da altri frutti, quali ad esempio prugne e fichi, o anche da orticole, quali anguria, cipolla, pomodoro e melone. 

Cos’è la mostarda?

La mostarda mantovana può essere definita come una confettura speziata o, più precisamente, senapata. Molto probabilmente, il termine mostarda deriva proprio dall’impiego caratteristico della senape che, se nella nostra lingua ha derivato la propria denominazione da quella latina, Sinapis, in francese è detta moutarde ed in inglese mustard. I termini francese ed inglese derivano a loro volta dal latino mustum ardens, con il quale già i romani indicavano una preparazione oltremodo piccante, ardens appunto, realizzata aggiungendo al mosto ancora in fermentazione o al vino novello, detti mustum, semi di senape pestati. Se nelle altre lingue, quindi, dal mustum ardens latino è derivato un termine che ne indica solo l’ingrediente più caratterizzante (in francese non esiste un vocabolo per tradurre il nostro “mostarda” che, viene preso pari pari o tradotto con “fruits confits à la moutarde”, vale a dire, letteralmente, “frutta confettata alla senape”), nel nostro paese è scaturito un termine che indica un’intera preparazione. In ogni caso, quale ne sia l’origine etimologica, la mostarda è storicamente legata alla cucina mantovana. Documenti d’archivio ne testimoniano la presenza sulla tavola dei principi e dei signori della Mantova medioevale e rinascimentale. 

Tecnologia produttiva

Non esiste una solo modo per preparare la mostarda mantovana ma, praticamente in ogni casa, pur ripetendosi gli ingredienti, sono tali e tante le varianti che risulta praticamente impossibile darne una trattazione complessivamente esaustiva. Di seguito, comunque, ci riferiremo alle più seguite prassi operative riferite alla preparazione di mostarda di mele o pere o mele cotogne. Nelle nostre cucine, generalmente, viene impiegata frutta di produzione locale, lavorata non più di 4 o 5 giorni dopo la raccolta per impedire che possa avanzare di maturazione. La frutta viene lavata utilizzando acqua corrente potabile e posta ad asciugare su canovacci puliti. Subito dopo inizia la lavorazione, che prevede, nell’ordine, pelatura, picciolatura, detorsolatura ed affettatura. Se ne ricavano fette della forma di una semiluna e di dimensioni comprese fra i 5-7 cm per 2-4 cm. Così preparate le fette vengono ricoperte di zucchero, in genere almeno 500 grammi di zucchero ogni 1000 di prodotto. Una variante molto praticata è quella di mescolare alla massa anche 2 limoni a fettine con la buccia. La massa viene lasciata a riposo per 24 h. Quindi, si separa il liquido che nel frattempo è stato ceduto dalla frutta e lo si concentra facendolo bollire per alcuni minuti. Indicativamente, al termine di questa operazione il volume del liquido è diminuito di circa il 10%. Il liquido, ancora bollente, viene rigettato sulla massa che riposa per altre 24 h. In questo modo è stato completato un passaggio della concentrazione. Per alcuni la concentrazione è unica, altri, ed è la norma, la ripetono più volte, fino ad un massimo di cinque. Il sistema più diffuso, tuttavia, prevede 3 successive concentrazioni distanziate di 24 h l’una dall’altra.. Comunque, 24 h dopo l’ultima concentrazione si separa ancora una volta il liquido e lo si porta ad ebollizione: nello stesso, quindi, viene rimessa la massa della frutta e il tutto è fatto bollire a fuoco lento generalmente per non più di 8-10 minuti. Quando la massa si è raffreddata si aggiunge la senape. Circa le dosi esistono numerose varianti, spesso 6 gocce di senape ogni 1000 grammi di prodotto, che possono essere 7, 8 e crescere, fino ad arrivare a 20. In considerazione della fisiologica diminuzione di isosolfocianato di allile, in pratica il “piccante” della senape, per le preparazioni il cui consumo è differito alla primavera successiva, alcuni crescono la dose di senape del 30 % circa. La senape viene ritualmente acquistata appositamente in farmacia il giorno stesso dell’impiego. La dose di senape viene aggiunta in un ambiente areato, generalmente con le finestre ben spalancate, per limitare il fastidio recato agli operatori dai gas da essa sprigionati. Per la conservazione vengono utilizzati vasetti di vetro. Inizia, così, la stagionatura che deve essere di almeno 30 giorni. Si è ottenuto un prodotto estremamente stabile dal punto di vista microbiologico. La conservazione, comunque, non supera mai i 12 mesi e la produzione è impostata per coprire questo arco temporale. 

Un ingrediente caratteristico: la senape

La senape è una crucifera della famiglia delle Brassicaceae. Ne esistono una quarantina di specie, molte delle quali coltivate come foraggere o come colture da sovescio. Le più conosciute sono la senape nera (Brassica nigra), la senape bianca (Sinapis alba) e la senape bruna (Brassica juncea). Di queste quella maggiormente coltivata a fini industriali è la senape bruna, i cui semi sono meno amari e più piccanti di quelli della senape bianca, più grossi di quelli della senape nera e, soprattutto, più resistenti alla sgranatura di quelli delle altre specie. L’essenza di senape che viene utilizzata per la preparazione di mostarda è l’ isosolfocianato di allile. Esso si forma nella fermentazione sinapica per azione dell’enzima mirosina sul mironato di potassio o sinigrina. Sia la sinigrina che la mirosina sono contenuti nei semi di senape, ma all’interno di cellule diverse. Per la produzione dell’essenza di senape, quindi, è necessario distillare in corrente di vapor acqueo i semi maturi di senape (in genere si usano la Brassica nigra o la Brassica juncea), dopo averli liberati per pressione dal grasso e macerati in acqua. L’ isotiocianato di allile è ricco in zolfo, per questo la senape liquida scolorisce i cucchiai di argento che vi rimangono immersi. In questo caso, infatti, si forma sulfurato nero di argento. Si presenta come un liquido incolore che col tempo ingiallisce e quasi arrossa. Caratterizzato da un fortissimo odore pungente, provoca intensa lacrimazione. Presenta un sapore molto caustico, applicato sull’epidermide la irrita fortemente fino a provocare formazione di vesciche. Il gusto piccante della mostarda senapata decresce con il tempo per progressiva riduzione dell’isotiocianato di allile, molecola estremamente volatile e, soprattutto, particolarmente reattiva. Tale calo è più intenso al crescere della temperatura, per questo, se si ama una senape e, quindi, una mostarda, piccante, è buona norma conservarle al fresco. Attualmente, per la preparazione della mostarda si utilizzano sia l’ essenza naturale ottenuta con il metodo riportato, sia l’isotiocianato di allile sintetico. 

I PIATTI DELLA SAGRA DI TORRE 

PIATTI TIPICI PER L’OCCASIONE :

– Bigoli o spaghetti con le sardelle
– Frittata con i saltarelli o boss
– Pesce in bianco (luccio)
– Pesce in carpione
– Polenta
– Radicchietto,”molesine”,”ramponsoi” 

Bigoli con le sardelle

I bigoli, o nel nostro dialetto “bigoi”, erano e direi sono ancora, nel periodo della tradizionale festa del “pit”, uno dei piatti immancabili nelle mense degli abitanti della frazione Torre di Goito.
Un tempo venivano fatti con il torchio, uno strumento usato per tagliare la pasta che richiedeva, e richiede, per quelle famiglie che ancora lo adoperano, una certa forza fisica e per questo tante volte azionato da robuste braccia maschili.

I bigoli sono così impastati
– circa 3 uova intere
– 1/2 kg di farina bianca
– 2 parti d’acqua

N.B: C’è chi sostiene che l’acqua dell’impasto venisse usata per non indurire troppo la pasta durante la cottura e chi invece la usava per dare volume all’impasto, sostituendola a qualche uova… per risparmiare !!!
Oggi i tradizionali bigoli sono talvolta sostituiti dai comuni spaghetti.

Il Condimento
– 2 o 3 sardelle sotto sale per persona
– olio
– soggettivamente 1 spicchio d’aglio intero schiacciato, tolto prima di condire i bigoli

Preparazione
Le sardelle sotto sale potevano essere lavate sotto l’acqua tiepida oppure ben raschiate dal sale con un coltello, per essere poi spinate e messe nell’olio caldo e non bollente; chi le lasciava intere, chi le schiacciava con l’aiuto di una forchetta, chi le batteva con un coltello prima di metterle nell’olio: l’importante era comunque farle sciogliere. Solo allora si potevano condire i bigoli già cotti nell’acqua bollente e scarsa di sale. 

Frittata con i saltarelli 

Ingredienti
– 2 uova intere per persona
– formaggio grana grattugiato
– sale e pepe quanto basta
– saltarelli (piccolissimi gamberetti di fiume dal colore grigiastro)
– farina bianca

Si preparava e si prepara così:
Dopo aver ben lavato i saltarelli, nel dialetto “saltarei”, si infarinavano leggermente per poi friggerli nello strutto di maiale, oggi sostituito dall’olio; solo quando diventavano di un bel colore rosso si potevano scolare e lasciar raffreddare, approfittando di questo breve lasso di tempo per preparare il composto della frittata, sbattendo in una terrina le uova, il formaggio e, per qualcuno, una piccola parte di latte, aggiustando infine di sale e di pepe.
Una volta fatto questo, al composto si mescolavano i saltarei e si cuoceva il tutto in una teglia con poco olio (era olio di semi, quindi olio “magro”, povero),mescolando continuamente fino al completo raddensamento delle uova; infine, la frittata veniva girata con l’ausilio di un piatto o di un coperchio e finita quindi di cuocere anche dall’altra parte.

VARIANTE: la frittata, oltre che con i saltarei, poteva essere fatta anche con i “boss” che sono piccoli pesci di colore verdastro che si trovano nel letto dei fossi o del Mincio e venivano pescati con un particolare tipo di guadino a reti fitte. 

Pesce in bianco

Il pesce da cucinare in bianco per eccellenza nella cucina mantovana, e non di meno in quella della nostra piccola frazione di Torre, era, ed è tutt’oggi, il “famigerato” luccio, un pesce lungiforme, dai denti aguzzi, carnivoro (su lui si sono sentite storie e racconti, di pescatori e non, di ogni tipo),ma con il pregio di avere delle ottime carni bianche.
Un pesce facilmente reperibile un tempo, oggi un pochino meno, nelle acque del nostro caro fiume Mincio e nei fossi delle nostre campagne.

Ingredienti
-1 luccio di dimensione variabile legata al numero dei commensali (un chilo di luccio vivo per circa tre persone)
-1 cipolla,1 carota, un paio di coste di sedano, una foglia di alloro, uno spicchietto o due d’aglio
– circa mezzo bicchiere d’aceto di vino per chilo di luccio
– prezzemolo
– olio
– limone

Preparazione
In una pentola abbastanza capiente si preparava un fumetto con acqua, le carote mondate, la cipolla, il sedano, l’alloro, l’aglio, l’aceto, qualche foglia di prezzemolo e il sale.
Si metteva a lessare il luccio, pulito delle interiora ma non della testa, per circa una ventina di minuti; a cottura ultimata, mentre il luccio era ancora tiepido, lo si pelava, spolpava e disliscava con la dovuta attenzione; man mano che la polpa era pronta, la si deponeva in una terrina, a operazione completata, la si condiva con un po’ d’olio, qualche goccia di limone, sale quanto basta e del prezzemolo tritato. Era ed è usanza servirlo con delle fette di polenta abbrustolita.
N.B: Al luccio veniva lasciata la testa, perché durante la cottura le carni si insaporissero di più. 

Pesce in carpione

Il pesce in carpione, da noi detto anche”all’ajù”, presentava il vantaggio, grazie all’aceto, di avere una sua naturale conservazione di anche più di due mesi, se sapientemente chiuso in vasetti di vetro conservati in luoghi freschi che solitamente erano le cantine.

In carpione si usava preparare: l’anguilla, il pesce gatto, la tinca e del piccolo pesce bianco chiamato “psina o pesinaia”, ed è proprio quest’ultimo che andava per la maggiore in questo periodo di festa.

Ingredienti
-1/2 chilo di “psina”
– farina bianca
– 3/4 di cipolla o qualche spicchio d’aglio
– 3 bicchieri circa d’aceto
– qualche foglia di alloro
– un po’ d’acqua o vino bianco per diluire l’aceto.

Preparazione
Dopo aver pulito, schiacciandole la pancia, e lavato accuratamente la “minutaglia”, la si asciugava, infarinava e friggeva nello strutto.
Si soffriggeva poi, in una padella, la cipolla affettata abbastanza finemente oppure l’aglio. In un altro tegame, si portava a bollore l’aceto diluito con l’acqua e il vino bianco. Fatto questo, si disponeva il pesce già fritto in una teglia, mescolandolo alla cipolla e alle foglie d’alloro; una volta aggiustato di sale, si poteva ricoprire il tutto con l’aceto caldo e, dopo averlo lasciato riposare per quasi una giornata, si metteva nei barattoli, facendo sempre attenzione che il liquido ricoprisse completamente il pesce. 

Polenta

La polenta era un piatto praticamente sempre presente nelle cascine e tanti erano i modi di consumarla, alcuni caduti quasi completamente in disuso: basti pensare alla polenta e latte cucinata la mattina per colazione oppure alla polenta fritta e cosparsa di zucchero.
Tradizionalmente la polenta veniva cotta in un paiolo di rame, riempito per tre quarti d’acqua, e messa a bollire sul fuoco di legna.

Ingredienti
– farina gialla
– acqua in proporzione di un litro e mezzo per ½ chilo circa di farina
– sale

Preparazione
Portata a bollore l’acqua salata, si versava lentamente la farina, setacciandola accuratamente (oggi non occorre più setacciarla), mescolando continuamente con un cucchiaio di legno, facendo attenzione che l’acqua continuasse a bollire; si proseguiva la cottura per circa quaranta minuti e, infine, si versava sull’apposita “asse della polenta” che non è altro che un tagliere dalla forma rotonda con un manico, il tutto in legno. Dopo qualche minuto, si tagliavano le fette con un filo di cotone bianco chiamato il “fil”; anche questa pratica è caduta in disuso perché sostituita dal comune coltello. 

Il radicchietto, le “molesine”, i “ramponsoi”

Il radicchietto, le “molesine”, i “ramponsoi”, sono tutte verdure che offrono le nostre campagne, in questo periodo che anticipa la primavera.
Il radicchietto è una verdura da mangiare solitamente condita; se le foglie sono già grandi si lessano e si condiscono con aglio e aceto.
Le “molesine”, verdura comunemente conosciuta col nome di valerianella, si condiscono con olio, sale e, a piacimento, aceto; le foglie hanno un sapore leggermente acidulo.
I “ramponsoi” hanno le foglie piuttosto piccole, di forma lanceolata; si mangiano la radice, bianca piuttosto carnosa, e il cuore delle foglie, conditi.

Un affettuoso ringraziamento per i bellissimi e preziosi ricordi lo devo 
alla signora Grotti Eva, al signor Pachera Elio e al signor Canova Cesare.

Andrea Storti   
collaboratore Giordano Pachera  

LA STRADA DEL RISO E DEI RISOTTI MANTOVANI

L’associazione “Strada del riso e dei risotti mantovani” è stata costituita in Mantova il 23 maggio 2003 e ha tra i propri soci fondatori la Città di Goito.
Tra gli scopi statutari della nuova associazione si segnala la valorizzazione e la promozione delle produzioni agricole, agroalimentari e gastronomiche imperniate sulla storia e sulla tradizione del riso e dei risotti.
La coltura e la cultura del riso appartengono a pieno titolo anche al territorio e alla civiltà goitesi.
La coltivazione del riso nelle campagne goitesi, infatti, è stata praticata fino agli ’70 del secolo scorso; fino ad allora il territorio goitese ha rappresentato il confine occidentale dell’intera area risicola mantovana, tradizionalmente e tutt’ora estesa in sinistra Mincio, da Roverbella ad Ostiglia.
Inoltre, il riso e, in particolare, il Vialone nano, la varietà da decenni maggiormente apprezzata nella cucina virgiliana, è storico protagonista sulle tavole goitesi: avremo in futuro occasione di tornare più diffusamente sul “risot menà” e su tutti gli altri primi piatti a base di riso proposti dalla cucina locale.

Il percorso

Di seguito si riporta la descrizione del percorso della strada del riso come appare sul sito www.agriturismomantova.it.
La parte occidentale della Strada del riso attraversa e fiancheggia, per buona parte, il “Parco del Mincio”, la principale area naturalistica della provincia di Mantova, che si estende da Ponti sul Mincio sino a Sustinente.
Il viaggio inizia dall’ uscita Mantova nord dell’ autostrada A 22. In direzione San Giorgio in località Ghisiolo, sorge la Corte Costavecchia, classico esempio di architettura rurale mantovana della Sinistra Mincio, caratterizzata dall’ampia aia e circondata dal fossato sui tre lati per l’approdo dei barconi da riso.
Situata in località Gazzo, la Corte Carpaneta presenta una pila da riso, oggi inattiva. Riprendendo a Stradella la strada provinciale in direzione Roncoferraro si trovano, sulla sinistra, Corte Motta, di origine gonzaghesca, e la Pila da riso de Il Galeotto, così chiamata dal nome del primo proprietario, Francesco Galeotti, attiva fin dal 1765.
A Cadé, nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, si conserva il quadro della “Madonna della Risaia”.
In direzione di Roncoferraro, si arriva a Villa Garibaldi con Villa Nuvolari, risalente al XIX secolo, e la cinquecentesca Villa Ramaschi.
A Roncoferraro, il più importante centro della risicoltura mantovana, si può ammirare la Corte Grande, composta da casa padronale, ali ottocentesche e una vasta aia da riso. Di particolare interesse il “Museo del riso” visitabile previo appuntamento. Nei giardini vicino a Corte Grande sorge il Monumento alla Mondina, opera contemporanea di Barbara Rossetti. Pochi chilometri fuori dall’abitato, in direzione Nosedole, sorge Corte Cagiona, probabilmente la più antica corte risicola mantovana.
Nelle vicinanze di Roncoferraro si incontra Corte Badia, antica azienda risicola di origine gonzaghesca che conserva importanti reperti di un essicatoio per risone.
Proseguendo in direzione Governolo, si raggiunge l’abitato della Garolda con Villa Cavriani, Corte San Giovanni, Villa Veneri e Villa Le Quadre, tutte caratterizzate dalle forme barocche.
Deviando verso Mantova, si incontra Pontemerlano, con Villa Isabella d’Este e Villa Riesenfeldt, esempi di residenza patrizia in stile rococò, oltre a Corte Rottadola, antica e prestigiosa corte agricola. Nei pressi si trova la riserva naturale della Vallazza.
In direzione Ostiglia, si raggiunge Governolo, località in cui, secondo la tradizione, papa Leone fermò l’ invasione di Attila, re degli Unni. Nell’abitato, si segnalano la Torre di Galliano, edificata da Matilde di Canossa, e la chiesa dei Santi Erasmo e Agostino con il quadro del Borgani “Incontro di San Leone e Attila” del 1614. Governolo conserva due importanti opere idrauliche: la Conca di Sostegno o Conca Vinciana, costruita su progetto del Pitentino (1198) ripreso poi dal Bertazzolo su disegni di Leonardo, impedisce la risalita delle acque del Po e, più a valle, la Conca di San Leone che consente la navigazione tra le acque del Mincio e del Po, posti su livelli diversi.
A Sacchetta di Sustinente, sorgono Villa Mazzocchi o Corte Palazzona e Corte Palazzina.

A breve distanza incontriamo Sustinente, paese natale di Bernardino Ghinosi (1808-1855), patriota e studioso della risaia; subito dopo il paese il palazzo dei marchesi Guerrieri Gonzaga Belgioioso.
Proseguendo sino a Serravalle Po, si incontra il complesso della Torriana: fatto erigere nel 1650 e composto dalla casa padronale e dalla chiesa.
Ostiglia, insediamento di origine romana che diede i natali allo storico e poeta latino Cornelio Nepote (99-31 a.C.), vanta una raccolta di manoscritti musicali di rilevanza internazionale, custodita nella biblioteca Gareggiati. Pregevoli, inoltre, il Giardino di Palazzo Bonazzi ed il museo archeologico. Nell’alveo del Po, inoltre, si trova l’isola “Boschina”, riserva naturale.
Nelle campagne ostigliesi, in località Comuna Santuario sorge il santuario della Beata Vergine della Comuna, sorto nel XIV secolo in seguito ad una apparizione della Madonna, e rimaneggiato probabilmente da Giulio Romano.
A Ostiglia, si può acquistare riso vialone nano presso le riserie Lucchi e Chiodarelli. Ci si avvicina, così, al Busatello, in cui troviamo il sito archeologico La Vallona e un’importante oasi naturalistica.
Superata Cardinala, si attraversano le Valli di Poletto, bonificate nel 1473 e prime campagne mantovane coltivate a riso. Deviando in direzione di Gazzo Veronese troviamo la chiesa di san Pietro in Monastero, edificata anteriormente al 1000 e detta dagli abitanti del luogo “El Ceson”, vale a dire il Chiesone.
Proseguendo lungo la strada provinciale n. 80, dopo pochi chilometri si raggiunge Villimpenta. Notevoli il Castello Scaligero, della metà del ‘200, e la Villa Gonzaghesca o Villa Zani attribuita a Giulio Romano o a Michele Sanmicheli.
Seguendo in direzione Castel d’Ario si trova il borgo di Pradello, con le Corti Rusta, Fienilone e Pomellone, in una zona disboscata e bonificata già dall’ età monastica. Presso Corte Francioli, in via Fossa, si trova una raccolta di attrezzature agricole relative alla coltivazione del riso.
A Villagrossa vi sono varie corti agricole ben conservate, tra cui quella degli Orsini di Roma, ospitante tutt’oggi un’attiva azienda agricola con produzione e vendita diretta di vialone nano.
Castel d’Ario, celebre per aver dato i natali al leggendario pilota automobilistico Tazio Nuvolari (1892-1953), che D’Annunzio definì “il mantovano volante”, conserva le torri e parte della cinta muraria del castello. Secondo la leggenda il maniero, di origine romana, venne edificato dal centurione Ario. Nella torre maggiore, detta torre della fame, vennero murati vivi, per volere di Passerino Bonacolsi, Francesco Pico della Mirandola e i suoi due figli, Prendiparte e Tommasino. Stessa sorte toccò, più tardi, per volere dei Gonzaga, a Francesco e Giovanni, figli di Passerino, e a Guido e Pinamonte, figli di Butirone Bonacolsi.
Si arriva poi a Susano, dove l’ex convento dei Domenicani (chiostro e chiesa edificati da Antonio Maria Viani nel 1613), recentemente restaurato, ospita negozi di antiquariato. Risalendo verso l’Alto Mantovano, a Bigarello sorge il Mulino di Tristano Martinelli, il celebre Arlecchino, maschera prettamente mantovana. In località Bazza si trova l’omonima corte risalente al XIII° sec. e restaurata nel XVIII°sec. dai conti Todeschini.
A Castelbelforte, nella Corte Parolara dei marchesi Canossa troviamo l’Oratorio di Sant’Ignazio di Lojola (1757). Si arriva poi a Canedole con la massiccia torre campanaria di origine militare in cui, secondo la leggenda, si rifugiò Romeo Montecchi dopo aver abbandonato Mantova colpita dalla peste. Sempre in zona si trova la Corte Grande o dei Pasetto con casa padronale preceduta da un’enorme aia ancora circondata dal fossato per i barconi del riso. Nella zona di Castiglione Mantovano, abitato sorto nel 1229 come castello di difesa contro i veronesi, con funzione di sorveglianza e di sbarramento di una delle più importanti vie di accesso a Mantova fino al ‘500, troviamo Corte Alta e la Corte Castello. Da qui si raggiunge Roverbella, con l’interessante parrocchiale dell’Annunciazione, eretta in forme tardobarocche nel 1766.
Pochi chilometri dopo Roverbella sorge Pozzolo, celebre per l’omonima Fossa, opera idraulica del ‘400, di cui rimane un edificio eretto nel Settecento e rifatto nel 1878 da Antonio e Federico Arrivabene. Grazie al sistema idraulico attuale vengono derivate dal Mincio le acque impiegate nell’irrigazione di tutte le campagne attraversate nel nostro viaggio.

Dirigendosi verso Marmirolo, a Massimbona, in comune di Goito, è possibile visitare un mulino del 1150, ancora funzionante dove sono raccolti e conservati numerosi attrezzi originali costruiti nei secoli dai mugnai.
Riprendendo in direzione di Mantova si attraversa il comune di Marmirolo, con la Corte Quaresima, della prima metà dell’800, costruita da Gian Battista Vergani, e Corte Villanella, risalente al XVII secolo.
Usciti da Marmirolo in direzione di Mantova, dopo 2 km sulla destra è la deviazione per Bosco Fontana .
Si raggiunge, infine, il comune di Porto Mantovano, in cui, in località Spinosa, sorge l’omonima corte, attribuita da alcuni a Giulio Romano e da altri a G.B. Bertani (metà del XVI° sec.). Ormai in prossimità del casello autostradale di Mantova nord, troviamo gli imponenti resti del Palazzo della Favorita eretto per i Gonzaga dall’architetto Niccolò Sebregondi tra il 1615 e il 1624, testimonianza dell’antico splendore della famiglia dominante mantovana.