Dopo la “Vita di Sordello”, non poteva mancare la trattazione dell’aspetto poetico del nostro illustre goitese. Proponiamo il II Capitolo, dal titolo “Sordello poeta“, tratto dal libro postumo del goitese prof. Emilio Faccioli Sordello da Goito (a cura del prof. Rodolfo Signorini), edito con il contributo della Cassa Rurale Artigiana di Castel Goffredo, della Regione Lombardia, della Provincia di Mantova, del Comune di Goito e della Pro Loco locale nel 1994 e divulgato in occasione delle “Manifestazioni Sordelliane” nel novembre 1997. È stato un giusto omaggio reso dall’Amministrazione comunale al prof. Faccioli (morto a Firenze il 12 aprile 1991), conosciuto e stimato concittadino. Si legge nelle Presentazioni del libro, in quella dell’allora Sindaco Enzo Cartapati: “Sin dai primi giorni della mia nomina a sindaco, alla fine del ‘91, dopo qualche mese che Faccioli ci aveva lasciato, ho preso a cuore, assieme a tutti i Goitesi attenti ai valori culturali, la responsabilità di dare quanto prima alle stampe questo libro, d’accordo con la Pro Loco goitese che ne aveva acquisito il diritto alla pubblicazione.” È un libro d’apprezzabile qualità critico-letteraria, scritto con un linguaggio forbito che fa trasparire la ricca cultura dello studioso, distintosi a livello nazionale.

 

1. È un fatto abbstanza singolare che le vicende della vita, le avventure, gli amori, le imprese cavalleresche e il peregrinare di corte in corte, da signore a signore, abbiano creato di Sordello un’immagine tutta “romantica”, e in tutto estranea alla verità storica, e che la leggenda successivamente fiorita su quegli eventi abbia infine portato quell’immagine a un limite d’incandescenza fittizia facendola scendere fra i cascami di un romanticismo di maniera e appaiandovi, per di più, l’altro simulacro di un Sordello “patriota”, quasi di un profeta dell’Italia libera e unita, al quale Dante ha recato involontariamente il proprio avallo col dargli un significato ben diverso e peraltro congruo con i tempi suoi e con quelli del trovatore mantovano. È poi singolare, su altro fronte, che la realtà della sua opera letteraria sia tale da vederle assegnata, a torto, una qualifica di poesia “fredda” e costruita con procedimenti intellettualistici, a cominciare dall’adozione di una lingua esotica, di un costume culturale artefatto, o almeno così ritenuto, e di clichés di una letteratura ormai implicata in una fase d’involuzione senza via d’uscita. Ma se non è difficile smantellare il castello di cartapesta del Sordello “romantico” e spogliarlo degli orpelli che vi ha appiccicati una grama letteratura e drammaturgia nel secolo scorso, oggi non più tollerata neppure da lettori poco provveduti, meno agevole è rendere ragione di ciò che esprime la sua “fredda” e “costruita” produzione poetica, anche perché a metterci in imbarazzo è intervenuto il giudizio sostanzialmente negativo di alcuni esponenti di una critica che vi ha applicato metodi di valutazione non più accettabili ma tuttora correnti, in quanto consacrati da maestri di grande autorevolezza. È il caso, per esempio, di Giulio Bertoni, che nei primi decenni del ‘900 ai trovatori italiani e in particolare a Sordello ha dedicato a lungo ricerche, indagini e studi dai quali non è possibile prescindere e che nondimeno ha scritto, a modo di conclusione: “In noi produce un senso di delusione e quasi di scoramento il bagaglio poetico, fatto di poesie tra notevoli, mediocri e insignificanti, che il trovatore ci ha lasciato. Ci domandiamo stupiti: è veramente tutto qui, in questa quarantina di componimenti abilmente congegnati, il grande Sordello?” Al che può sembrare immotivato tanto il tempo perduto dal Bertoni nel rovistare tra carte d’archivio, tra manoscritti d’Italia e di Francia, nei luoghi e a volte nelle condizioni più disagevoli, per arrivare ad una “delusione” e a uno “scoramento” che erano da scontare, stando al suo osservatorio, fin dalla partenza. Questo non vuole dire che dobbiamo sentirci altrettanto delusi e ci spinge anzi a ritenere, quando si mettano da parte le pregiudiziali tardoromantiche dell’assenza di “cuore” e di “sentimento” ancora operanti nel Bertoni, che nei “freddi” congegni della poesia di Sordello non soltanto sono riconoscibili i suoi valori positivi ma si può ravvisare anche la sua attualità o quanto meno l’interesse che quella poesia può destare nei lettori d’oggi.

Ma veniamo senz’altro a una descrizione sommaria del canzoniere di Sordello e soprattutto a un’analisi puntuale di campionature più convincenti di ogni affermazione che possa suonare perentoria.

Del trovatore di Goito ci è pervenuto un gruppo limitato ma abbastanza vario di componimenti poetici che sono stati individuati con certezza in un discreto numero di codici autorevoli, specie nelle biblioteche di Francia, mentre in Italia ne sono conservati in quantità più ristretta a Roma presso la Biblioteca Vaticana e la Chigiana, a Firenze presso la Laurenziana e la Riccardiana, a Milano presso l’Ambrosiana, a Modena presso l’Estense. Complessivamente il suo canzoniere comprende dodici canzoni, due tenzoni e quattro “partimen” di argomento amoroso, sette sirventesi (dei quali due politici, due morali, tre di carattere personale), un “planh” in morte di Blacatz che può essere annoverato tra i sirventesi, una serie di quattro liriche minori, tre scambi di “cobbole” o strofette (con Aimeric de Peguilhan, con Montan e con Carlo d’Angiò), un “salutz”, nove liriche varie, qualche frammento e un poemetto didattico, Ensenhamens d’onor. Alcuni di questi componimenti ci sono pervenuti mutili di qualche parola o di qualche verso, altri di intere strofe, ma ciò che più si lamenta è la perdita degli spartiti musicali che si accompagnavano ai testi di poesia e che erano strettamente connessi alla specificità dell’arte di Sordello, ricordato dalle “vidas” provenzali come buon musico e buon cantore, disobbligato da ogni mediazione d’interpreti.

 

2. La meno conosciuta fra le opere di Sordello è il poemetto che va sotto il titolo di Ensenhamens d’onor, concepito in forma di programma di vita e di moralità — a imitazione di operette di contenuto affine di Garin lo Brun, di Arnaut Guillem de Marsan, di Arnaut de Maroill — che il poeta viene esponendo in una sequenza di 1327 versi a monito dei lettori e anche di se stesso, sebbene non esiti a dichiararsi impari agli ideali che professa. A confronto con gli altri componimenti del trovatore mantovano il poemetto è anche il più lontano dalla poesia, il più lento e faticosamente elaborato, ma proprio per questo il più scoperto nei suoi meccanismi e quello che meglio può aiutarci nello scoprirne il funzionamento, non tanto per recepirlo come abbozzo di una poetica che non vi prende mai una formulazione, neppure approssimativamente, ma quale testimonianza di un meditato trattamento della parola in ragione degli sviluppi del pensiero, e di un proposito, se pure non suffragato da risultanze persuasive, di imprimere al discorso un determinato rilievo espressivo. Valga, a titolo d’esempio, la citazione di un brano dove l’autore dice dell’opportunità di vincere le passioni:

Non può essere alcun uomo

davvero saggio se, pur contro voglia,

non governa il suo talento

col proprio senno, che dal danno lo preserva.

Chi vuole ben vincere il nemico

deve vincere prima se stesso,

cioè il suo cuore, perché più mortale nemico

non ha l’uomo, né più malvagio,

del proprio cuore, quando gli volge il morso

verso il male e dal bene lo distoglie.

Né mai il cuore sarà vinto

se dal senno non muove la virtù;

e la virtù non uscirà vincitrice del senno

senza un perfetto valore,

quando il cuore è spinto a mal fare

e ha impreso a commetterlo.

 

Massime di verità, ammonimenti, proverbi, non molto peregrini per se stessi e neppure prodotti da una concentrazione riflessiva, trovano qui occasione di agglomerarsi in un concetto di fondo nella cultura trobadorica e nel costume di corte, secondo il quale, si è già detto, è buona cosa mettere un freno alle passioni del cuore; segmenti di speculazione mentale fra loro “abilmente congegnati”, per cogliere in positivo l’espressione usata dal Bertoni, non tuttavia a seguito dell’applicazione di un semplice gioco combinatorio bensì di un procedimento sottile e complesso in cui l’ordine inventivo prevale su quello logico, in un concatenarsi di parole chiave (talento, senno, virtù, valore) che si riverberano l’una dall’altra come in una fuga di specchi, così da creare un ritmo discorsivo incalzante, ribadito e reiterato per favorire convincimenti, e ad un tempo, per dar luogo a echi suggestivi per i quali vale l’incentivazione dell’unica e non prevaricante metafora del morso che può volgere verso il male e distogliere dal bene.

Motivi ricorrenti e interagenti nella poesia trobadorica sono altresì quelli del “dono” e del “pregio”, che negli Ensenhamens d’onor vengono trattati a titolo di professione morale, non già col predicarli ma col denunciarne le assenze nell’orbita di una ben individuata società, specialmente nelle persone dei ricchi, ai quali il poeta riserva le accuse polemicamente più risentite dilatandole fino ai limiti dell’ingiuria e della maledizione:

I ricchi di terre e di averi,

poveri di cuore e vuoti di senno,

non amano pregio né lode

né temono disonore alcuno;

e nei loro fatti non hanno pensiero

di ben fare, né ingegno né arte,

perché Iddio di loro non si cura,

tanto son vili e senza cuore.

Sono costoro gli spregevoli sciagurati,

poveri e ricchi a un tempo, e morti

ancor da vivi. Sapete perché?

Perché fanno tal vita che mai avranno

grazia da Dio né onore dal secolo

né alcuna gioia nel cuore loro.

 

Né l’invettiva di Sordello risparmia gli “onorati” e “alti baroni” dal “fiero sembiante” e li tocca al contrario con accenti d’ironia che danno vita a figure incisivamente segnate:

Esistono baroni onorati che temere

si fanno e sono di fiero sembiante

soltanto perché non c’è chi osi riprenderli

di loro mancanze e consigliarli

a donore o a fare qualche beneficio

o a togliersi dal far male in alcunché.

Chi è tale non paventa in nessun modo

la vergogna del cuore,

sicché non potrebbe avere alcun pregio

quand’anche altrove bene al tutto si comporti,

perché compie una delle peggiori malvagità

che possano fare i più alti baroni.

 

Al tema abbinato del “dono” e del “pregio” è poi connesso il concetto di nobiltà intesa dal trovatore di Goito come virtù propria dell’individuo in sé e non come pregio di sangue o di stirpe, in anticipo di qualche decennio su quelle affermazioni di principio che si ritroveranno approfondite nei poeti dello Stilnovo e in particolare nel Guinizzelli. Né in Sordello è questo uno spunto episodico, benché negli Ensenhamens d’onor sembri comparire occasionalmente, e anzi si organizza in concordanza di pensiero con quello che nella sede del poemetto medesimo è la sua concezione della donna e dell’amore, delineandosi con il sapore eccitante della scoperta e con un vigore d’eloquio che è pari alla spiccata sensibilità sociale del poeta, forse non disgiunta, quest’ultima, da una sua personale contestazione di spirito “borghese” nei confronti di una nobiltà che a suo giudizio dovrebbe “annegare e sommergersi”:

Il borghese che fa forza alla natura

per aver pregio, e al basso suo stato,

niente può fare di meglio al mondo;

né peggio può fare, a parer mio,

il nobile che forza e vince sua natura

per esser malvagio e fellone.

Così, piaccia o non piaccia,

a dire il vero è tutto riposto in nobile cuore

il bene che sempre l’uomo compie,

da qualunque schiatta egli discenda.

Non si può dire dunque che nobiltà

muova dalla sola nobiltà dei natali,

perché chi è nobile di sangue è spesso malvagio,

mentre il borghese è valente e pregiato;

ma un cuore nobile e gentile

è cuor di signore per le belle azioni che fa.

 

Anche qui, come in tutto il poemetto, il discorso verte sopra una problematica morale e sociale e ovviamente non viene meno al proprio assunto, ma i congegni verbali a cui è legato il suo funzionamento sono rivelatori di un’elaborazione letteraria studiatamente fondata sull’antitesi di due serie di unità lessicali che fanno capo, con deliberata insistenza, al “borghese” “valente e pregiato” e al “nobile” “malvagio e fellone”, e danno origine a un’articolazione dialettica aggressiva, espressivamente tanto più efficace quanto meglio fa emergere dal chiaroscuro quel verace “cuore nobile e gentile” che in questi versi il poeta tiene a emblematizzare o, in altri termini, a sublimare nella sfera della poesia, senza obliterare tuttavia quel senso morale che è intrinseco ai propositi e alla natura degli Ensenhamens d’onor.

Dall’idea del “cuore nobile e gentile” procede successivamente, quasi di necessità, il concetto dell’amore cortese che è il dato caratterizzante di tutta la poesia trobadorica e che negli Ensenhamens d’onor trova una precisazione che rivedremo chiarita e circostanziata in tutte le liriche amorose del trovatore mantovano:

È la cosa più pura del mondo

amore, se si guardi con sano giudizio,

ma non avanza su giusto cammino

quando misura non lo regga;

e allorché vien meno la misura

amore perde purezza e insorge slealtà,

poiché un uomo non ama davvero lealmente

se non desidera, senza mutare di cuore,

di sua dama il pregio e l’onore,

come ama di lei la persona e l’amore.

 

Ancora un accorgimento letterario fra quelli d’uso corrente nell’officina di Sordello, questa volta impostato sull’inversione, da un enunciato asseverativo — l’amore è la cosa più pura del mondo — a una sequenza di dimostrazioni indotte in positivo da ciò che inibisce il godimento di quella purezza. Ma al di là di quei meccanismi retorici ai quali il poeta si affida, il nostro interesse si concentra ora sui concetti specifici della donna e dell’amore cortese che negli Ensenhamens vengono successivamente esposti con semplice scopo didattico e che per nostra utilità possono essere così sintetizzati: una nobile dama non deve amare un uomo vile ma soltanto un cavaliere pregiato, se non vuole a sua volta invilire; deve perciò guardarsi da ogni fallo, tenere alla riservatezza, amare un solo cavaliere e guardare prima con attenzione a quale possa concedere il proprio amore, non fare alcun conto di ciò che sia in qualche modo sconveniente, usare con discrezione la parola, non desiderare cosa alcuna con brama sconsiderata e soprattutto serbare intatto il proprio onore. Quali siano i doveri del cavaliere Sordello ha implicitamente detto già in precedenza, esaltando le virtù fondamentali del “dono”, del “pregio”, della lealtà, della nobiltà di cuore, della saggezza, della misura, della rettitudine, ma la “perfezione” d’amore non può essere prodotta che da uno slancio ideale che postula di per sé non più un dettato didascalico bensì la piena espressione poetica. È in questa istanza che gli Ensenhamens d’onor si chiudono con un abbandono all’empito lirico suggerito dall’amore che nel “senhal” di Agradiva ha la sua immagine più nitida, moltiplicata all’infinito dall’enumerazione dei suoi pregi, in una sorta di rosario laico che la carica di valori simbolici:

E chi non sa chi è, domandi

della più bella, della più pregiata,

della migliore, della più avvenente,

della più leale, della più piacente,

della più nobile, della più umile,

della più gentile in ogni cosa,

della più amabile, della più cortese,

della più addottrinata in tutte le buone cose,

della più leggiadra, della più graziosa,

di colei che più attalenta i prodi,

della più pura, della più acconcia,

della più eletta in tutti i buoni costumi,

della meglio amata, di colei che meno ama,

di colei che ha buona fama.

Ora a tutti ho mostrato chi sia

colei che tutto mi ha conquistato;

e prego che Iddio non mi dia gioia

di lei, che mi tiene prigioniero,

se non penso che in tutto sia tale

Donna Agradiva, la mia dolce amica,

quale ve l’ho descritta.

 

Miglior preludio di questo canto così liberamente spiegato — quasi una lirica a sé, da estrapolare con qualche arbitrio dal contesto degli Ensenhamens d’onor — non potrebbe essere proposto a introduzione delle poesie amorose di Sordello, anche se queste appartengono per la maggior parte a un’epoca anteriore alla composizione del poemetto, databile intorno agli anni cinquanta del secolo XIII. La lettura dei versi d’amore scritti dal trovatore mantovano esige tuttavia una propedeutica più ampia di quella che ci può essere offerta dagli Ensenhamens intorno al concetto dell’amore cortese quale è formulato con varie articolazioni dai trovatori di Provenza e dai loro seguaci italiani, in termini di comportamento e di costume e nell’espressione formale che vi si connette.

 

3. Dal provenzale “trobar”, vale a dire “trovare, inventare poetando”, ha origine il termine “trobador”, “trovatore”, con il quale si designava colui che oltre a scrivere il testo poetico delle canzoni ne componeva anche la musica, provvedendo a eseguirla di persona, per cui era anche musico e cantore, o affidandone l’interpretazione a un “joglar” o “giullare” che faceva parte della sua équipe. Certo, fra parole e musica, la supremazia spettava al testo poetico per il quale molti spunti venivano attinti dalla poesia latina, specie da Ovidio, e in parte dalla lirica araba. In due secoli di fortunata attività, tra la fine del 1100 e l’inizio del 1300, quattrocentocinquanta furono all’incirca i trovatori operanti nelle corti di Provenza, d’Italia, di parte della Spagna e del Portogallo, provenienti dal popolo, dalla cavalleria, dal clero e dai ceti borghesi, e presto pervenuti a un tale livello di consapevolezza e di prestigio intellettuale da costituire una sorta di casta che godeva di un’elevata valutazione presso i prìncipi del tempo e perciò della loro protezione, dando esca, fra le varie corti, a un’accanita rivalità per procacciarsi i più noti e acclamati: il tutto in un clima d’intensa fioritura culturale, ma anche di una fruizione elitariamente ristretta e di un mecenatismo spinto alla dissipazione da un eccesso di splendore mondano dal quale il trovatore non veniva discriminato.

La poesia dei trovatori non si limitava a celebrare un’ingentilita forma di rapporto amoroso ma temdeva particolarmente a sublimare i costumi, còlti al più alto livello, identificandoli nel concetto centrale della cortesia assunta come scuola di comportamento esteriore e interiore. Scrive Folchetto da Marsiglia, uno dei più celebri trovatori di Provenza, che “la cortesia non è altro che misura” e come tale, nella sua essenzialità, essa implica in sé tutte le virtù, la lealtà, la saggezza, la nobiltà di cuore, la munificenza del donare, il senso di ciò che può conferire pregio e onore. La fonte prima della cortesia era individuata dalla cultura trobadorica nell’amore e — per un paradosso che è tale ai nostri giorni quanto doveva esserlo allora a giudizio di chi era estraneo alla vita di corte — nell’amore per la donna di un altro, venerata e considerata oggetto di omaggio, non di godimento dei sensi. Proprio le sollecitazioni dei sensi dovevano anzi essere represse e a un tempo stimolate per poterne fruire allo scopo di un affinamento individuale e sociale, sia negli atti del vivere quotidiano sia nei momenti di massimo impegno morale, quando sensibilità e fierezza si integravano reciprocamente nel gesto eroico dell’amante che accettava la morte come sacrificio da consumare in onore dell’essere amato.

Era questi non la donna in genere, ma la dama (dal latino “domina”), la moglie del signore, con la quale non potevano esservi rapporti carnali, neppure limitati. La poesia dei trovatori veniva così a orientarsi in senso esclusivamente aristocratico, per cui ciò che sopravviveva del platonismo arrivava a conciliarsi, nell’ambito della corte, con l’idea della donna come scopo del servizio d’amore e in alcuni di un culto simile a quello serbato alla Vergine: il che si spiega agevolmente, se si tengano presenti le forti pressioni operate dalla cultura religiosa sulle forme di pensiero e di espressione, di cui la traccia più evidente è manifesta nella pittura dell’epoca.

Un’analisi ulteriore ci consente altresì di penetrare più a fondo nella natura dell’amore cortese, nel quale l’esclusione del godimento dei sensi non ne respingeva il desiderio ma presupponeva uno stato di tensione continua fra desiderio e appagamento, tensione a cui si assegnava una facoltà altamente educativa, destinata a mancare allorché fosse venuto meno l’uno o l’altro implicando la cessazione di ogni forma spirituale e morale.

L’estrema idealizzazione che permeava i contenuti di fondo della poesia trobadorica, con il rigoroso codice che li regolava e governava, aveva il proprio corrispettivo in una ricerca formale non meno strenuamente rigorosa e a volte persino intransigente nell’applicazione di modi chiusi, di iterazioni, di assonanze interne, di incontri speculari di parole e di sintagmi, con effetti di una stilizzazione che nei casi meno fortunati scadeva nel gioco verbale, mentre nei più felici si uniformava mirabilmente alla dichiarata astrattezza del concetto ispiratore. Nei momenti meno fausti come nelle soluzioni più convincenti, comunque fosse, si profilava sempre una costante e arrovellata preoccupazione di ordine formale, rivelatasi principalmente nella progressiva differenziazione dei generi lirici: più alta di tutti la “canzone”, il cui tema dominante era l’amore, laddove la casistica amorosa e le dispute sui princìpi del costume cortese venivano affidati per lo più alla “tenzone” o al “partimen”, e la satira politica, morale e personale al “sirventese”, ai quali si affiancavano generi d’uso più limitato, come la “cobbola”, il “salut”, “l’alba”, la “pastorella”, quest’ultima più vicina ai temi dell’amore profano, al di fuori delle idealizzazioni della poesia cortese.

L’area di diffusione della poesia trobadorica, come già si è ricordato, si estendeva a larghe zone dell’Occidente romanzo, ma toccava anche l’Ungheria e la Germania, dove il “Minnesang” riecheggiò in lingua tedesca la concezione dell’amore spiritualizzato: in parte a seguito delle ripetute frequentazioni di trovatori provenzali in altri paesi, specie nelle corti dell’Italia settentrionale, in parte per l’adozione del provenzale e dei motivi della lirica trobadorica ad opera di poeti non provenzali. Insieme con i catalani e con i portoghesi, i trovatori di nascita italiana costituiscono fra questi il gruppo più folto, con una produzione che poté essere di nutriti canzonieri o di pochi componimenti oppure di episodiche prove che si affiancavano ad altre in lingua italiana. Oltre al nostro Sordello sono qui da ricordare Peire de la Cavarana, forse nativo del territorio veronese, Manfredi I Lancia piemontese, Umberto da Biandrate, Rambertino Buvalelli da Bologna, Nicoletto da Torino, i molti liguri — da Bonifacio Calvo e Lanfranco Cigala a Luchetto Gattilusio a Scotto Scotti a Luca Grimaldi a Giacomo Grillo a Simone Doria a Percivalle Doria a Calega Panzano a Rubaldo Rubaldi a Pietro da Genova –, Bartolomeo Zorzi da Venezia, Girardo Cavallazzi da Novara, i non meglio identificati Pavese e Bigolini, forse trevigiani, i toscani Terramagnino da Pisa, Paolo Lanfranchi da Pistoia, Dante da Maiano, Giacomo da Leona aretino, Migliore degli Abati fiorentino. Per quasi tutti i sopra nominati la scelta del provenzale non significò tanto l’adozione di una lingua, anche se da alcuni effettuata a titolo di esperimento occasionale o magari per esibizionismo, bensì di una poetica di suggestiva attualità, largamente impostasi nella cultura europea per i suoi valori effettuali e in ragione del prestigio del costume di corte di cui era l’ispiratrice e l’interprete.

Ci si può chiede a questo punto come una scuola poetica che ebbe tanta notorietà e così larga rispondenza nei luoghi d’origine e fra i seguaci di altri paesi sia venuta a mancare di ulteriori sviluppi, già nello scorcio del secolo XIII, quando la letteratura in lingua d’oil cominciò ad avere un deciso sopravvento; e certo alla sua fine contribuirono cause esterne facilmente individuabili nella crisi economica in cui si trovarono coinvolte le corti di Provenza dalla pratica di un mecenatismo dissipatorio, e più ancora, probabilmente, nella perdita dell’indipendenza politica da parte del Mezzogiorno di Francia, ma la decadenza della poesia trobadorica è intrinseca alla limitatezza dei suoi temi e delle sue forme, esauritasi senza reversibilità in sterili giochi condotti su motivi ormai svuotati d’interesse.

 

4. Sia gli Ensenhamens d’onor quale programma personale di vita e di poesia, d’onore e d’amore nella loro reciprocità, sia il discorso propedeutico alla concezione trobadorica dell’amore cortese, considerato nei suoi princìpi e nelle sue direttrici di fondo, sono tali da introdurci nel clima di un definito ambiente culturale ma soltanto in parte nello spirito della poesia amorosa di Sordello. Senza prescindere dagli Ensenhamens né dai concetti informatori della lirica trobadorica è perciò necessario condurre un’indagine circostanziata sulle liriche d’amore del trovatore di Goito in maniera di proporne una caratterizzazione differenziante, adeguata al posto primario che esse occupano nella sua produzione, dove rappresentano altresì il nucleo più organico e sufficiente, per se stesso, a delineare il profilo del poeta.

Per la storia esterna delle poesie d’ispirazione amorosa scritte da Sordello converrà dire che la nobile dama alla quale il poeta rende omaggio d’amore è identificabile per lo più in Guida di Rodez, sebbene la designazione sia raramente esplicita e nella maggior parte dei casi, sia anzi congetturale, tanto da indurci a ipotizzare dediche ad altre dame delle corti di Provenza (non però d’Italia, come potrebbe far pensare fra gli altri il rapporto con Cunizza da Romano, anche perché le poesie di Sordello che precedono il suo soggiorno d’Oltralpe non ci sono pervenute o non risultano riconoscibili da nessun segno in quelle che sono giunte sino a noi). Converrà inoltre aggiungere che la datazione dei singoli componimenti non è mai documentata e spesso non è ricostruibile che per via indiretta e con largo margine di approssimatività, a volte suggerita da qualche allusione che sembra di scorgervi, ma poi rimessa in discussione da accenni in contrario o da qualche particolare che la collega a date accertabili di componimenti scritti da altri trovatori. Un riferimento puntuale allo svolgimento diacronico delle poesie amorose di Sordello non è pertanto possibile e sotto un certo aspetto sarebbe anche arbitrario, specie per la natura peculiare di una produzione inglobata nell’attività di una scuola poetica che presenta uno sviluppo alquanto lento e spesso ritardato dalla ristrettezza e dalla monotonia dei motivi. Di qui l’opportunità, da parte nostra, di un’indagine liberamente impegnata sui temi d’ispirazione, sulla varietà delle forme e dei modi espressivi, su raffronti, quando siano leciti, con la produzione affine che aveva corso all’epoca di Sordello.

Una prima canzone presenta una serie di cinque “coblas” o strofe aperte e chiuse da una “tornada” o ritornello che ne denuncia la duplice struttura, letteraria e musicale, del resto non diversa da quella degli altri componimenti ma certo più scoperta nel farci intuire come il ritmo musicale obbedisca alle leggi della ritmica sillabica, per cui la melodia deve rispondere alla struttura del testo poetico collocando su ciascuna sillaba un neuma musicale distinto, così come a ogni verso deve commisurarsi una frase melodica compiuta e distinta. Nel caso di questa canzone il ritornello, con la musica che vi è sottesa, vale anche ad impostazione del motivo conduttore, forse d’estrazione popolare ma ricorrente nelle maniere dotte della poesia trobadorica:

Ahimè! a che mi giovano i miei occhi,

se non vedo ciò che io desidero?

 

Con diversa intonazione Sordello riprende così il motivo dell’ “amore lontano”, desiderato e non veduto, al quale già si era ispirato Jaufré Rudel, e lo sviluppa nelle “coblas” che seguono in alternanza di spunti ora idillici ora patetici, questi ultimi spinti al limite di una disperazione più immaginata che vissuta, gli uni e gli altri disciolti in una musicalità che ne accoglie tutte le sfumature, dalle note esultanti dell’esordio:

Ora che si rinnova e si abbella

l’estate con foglie e con fiori,

poiché mi prega e si compiace

che io canti e mi tolga dal dolore

colei ch’è donna leggiadra,

canterò, sebbene d’amore io muoia,

visto che tanto l’amo senza sosta

e raramente vedo colei che adoro,

e a quelle corrucciate e ploranti della “cobla” finale.

Nel cantare prego la mia dolce amica,

se così le piace, che a torto non mi uccida,

poiché se ella capisce che è peccato

avrà di che pentirsi, quando m’avrà ucciso.

Vorrei nondimeno morire

che vivere senza conforto,

perché peggio soffre che se morisse

chi rare volte vede ciò che fortemente ama.

 

In altra canzone indirizzata a Guida di Rodez sotto il “senhal” di Agradiva — parzialmente già citata — il discorso poetico si distende in più ampie volute, secondo una pronuncia nobile e scandita con fermezza anche quando sembra tendere a un andamento prosastico, volta a volta arginato dalla fedeltà allo schema metrico scelto. Niente poi si perde in questa lirica di ciò che nella precedente era per il lettore motivo di una suggestiva cantabilità, avvalorata dal riecheggiare della “tornada”, e si esplica piuttosto nelle forme predilette dell’iterazione verbale, che il poeta adotta come costante ritmica o, si direbbe, come metronomo che governa il dettato musicale in cui si dispiega l’immobilità di quel misterioso mutabile che è la vita, identificata nella sua concretezza mediante l’equazione con la gioia e con l’amore:

Soltanto si vive quando con gioia si vive,

poiché vivere in altro modo vita non deve chiamarsi.

Perciò di vivere mi sforzo e comportarmi

con animo lieto, per servire con premura migliore

colei che amo: uomo che vive in afflizione

atti buoni e gentili non può fare di cuore.

Sarà dunque una grazia se la donna più piacente

mi fa vivere con gioia, perché altro non stimo sia la vita.

 

Concreta, s’intenda correttamente, è la letterarietà di ciò che per Sordello sono la vita, la gioia e l’amore, i quali hanno origine dal “trobar”, dall’inventare poetando, e non corrispondono che come segni alla realtà morale che vi è sottesa. Non per questo essi sono depauperati di moralità né isteriliti in espressioni fittizie o addirittura in finzioni di valori morali, e al contrario, pur astraendosene in una sorte di escursione mentale di alto impegno, vi attingono dialetticamente la loro ragione di essere, tanto da proporsi come nuovi contenuti di una poesia estremamente preziosa, coltivata e rilanciata da corte a corte, da trovatore a trovatore, anche se talvolta sembri rinchiusa in un’atmosfera artificiale, come un fiore di serra (né dai rischi dell’artificiosità va esente la poesia di Sordello, non soltanto per l’esito alterno di certe sue soluzioni ma anche per l’incerta qualifica di letterarietà da assegnare ai contenuti da lui assunti, il che lo rende un poeta molto più “difficile” di quanto non lo faccia apparire l’apparente semplicità del suo dettato). Sulla linea di una coerente letterarietà si mantiene in ogni caso il trovatore di Goito nella canzone sopra citata collocando frontalmente, contro il motivo della vita, quello della morte e di nuovo affidandosi all’iterazione di una parola-guida, per l’appunto “morte” o “morire”, cui ancora una volta si connettono per equazione antitetica la gioia e l’amore:

Dura pietà e troppo tardiva indulgenza

mi fanno morire per troppo desiderio;

né posso veramente durare in vita senza la gioia

che le impetro con servirla e amarla fra tormenti tali

che mille volte al giorno vorrei essere morto,

tanto mi strazia il dardo che mi ha ferito

d’Amore al cuore, così che la morte a me si conviene,

non a lei, che non è parimenti ferita.

 

La letterarietà della poesia amorosa di Sordello si rivela anche ad altri sintomi, soprattutto nel processo d’interiorizzazione in cui il poeta si concentra sempre più a fondo, spesso con drastiche rinunce al soccorso delle immagini, all’evocazione del paesaggio o della natura, per la verità non del tutto assenti ma estenuate al limite di una stilizzazione convenzionale e di una posticcia decoratività. Si veda quanto suonino generiche certe proposizioni d’attacco, lasciate subito cadere, mentre qualche nota di colore più intenso arricchisce il disegno di alcuni componimenti. È il caso di un esordio già citato in altro luogo:

Ora che si rinnova e si abbella

l’estate con foglie e fiori;

o di altro che sembra ricalcarlo:

Ora che verso il tempo di maggio

vedo apparire foglie e fiori;

o di altro che si sviluppa con modulazione più distesa:

Cantare io devo con perfetto amore

tanto d’inverno quanto d’estate, secondo ragione.

Così col freddo voglio fare una gaia canzone

come quando in primavera ho vaghezza di cantare,

poiché alla rosa si assomiglia colei che io canto

e la neve altresì ha il suo stesso sembiante:

perciò d’estate e d’inverno devo per l’amor suo cantare,

tanto la neve e la rosa mi fanno di lei rammentare.

 

Il processo d’interiorizzazione sul quale Sordello preferisce impegnarsi lo porta in compenso a una poesie di pura emozione che in qualche momento può sembrare controllata e persino sottoposta a uno scrutinio puntiglioso o impigrito nei meandri di un monologare fra sé e sé, ma che per lo più erompe in abbandoni melodici ai quali risponde la serietà della sua riflessione, se non proprio dall’approfondimento, peraltro alleggerita tempestivamente da soste di cantabilità e di grazia, da una misura di agilità consapevolmente esibita:

Comporre mi piace con facili parole

una canzone di facile melodia,

perché la donna migliore che sia dato di scegliere,

alla quale mi concedo e mi rendo e mi dono,

non desidera e non gradisce un canto fatto con troppa maestria;

e poiché non le piace, farò dunque un canto

facile a cantarsi, gradevole a udirsi,

chiaro a intendersi; e semplice, se tale si accetta.

 

E sopra una linea pulitamente tracciata sul discrimine tra rappresentazione figurativa e consonanza musicale imposta un motivo che segnerà un luogo di transito obbligato fra la poesia trobadorica e quella dello Stilnovo:

Ah, come con grazia mi seppe guardare,

se il suo sguardo non fu menzognero,

con gli occhi che graziosamente sa volgere

sempre diritti là dove le piace!

Ma ai suoi detti mi sembra che le cose cambino.

Crederò tuttavia agli sguardi, perché in avverso al cuore

molte volte si parla, ma nessun potere hanno gli occhi

di guardare con grazia, se il cuore non li muove.

 

Dal repertorio trobadorico il motivo dell’amore che penetra nel cuore tramite gli occhi non è del resto l’unico fra quanti ne passeranno nella lirica italiana del ‘200 (e valga, almeno per questo, una citazione da Guido Cavalcanti: “La donna che nel cor ti pose / co la forza d’amor tutto ‘l so viso, / dentro per gli occhi ti mirò sì fiso / ch’Amor fece apparire”) e arriveranno a toccare anche epoche successive, fino al Petrarca di un sonetto famoso (“Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti / e gli occhi porto per fuggire intenti / ove vestigio uman la rena stampi”) del quale Sordello anticipa il tema della solitudine amorosa:

È tanto bello rimirare voi,

donna piacente e di buona grazia,

che vivere non posso in gioia perfetta

da quando son lontano dal dolce rifugio

dov’è vostra persona giovane e gentile.

Sovente esco anzi di tra le genti,

soletto e pensieroso,

e nel pensiero, voi, donna, rimiro.

Perché mai con me siete adirata

che ogni pensiero mi togliete, ogni consiglio?

 

Tutto ciò giova ad apprezzare la parte non secondaria svolta da Sordello nel travaso di esperienze poetiche dalla Provenza all’Italia nel secolo XIII, ma sul medesimo itinerario, percorso a ritroso, ci aiuta a definire meglio quel processo d’interiorizzazione nel quale già l’abbiamo visto raccogliersi non per farne oggetto d’insegnamenti morali, e perciò al di fuori di ogni proposito didattico com’è degli Ensenhamens d’onor, bensì per estendere l’investigazione e la conoscenza di sé, come forza propulsiva di vitalità e di rinnovamento.

I tempi di quel processo non sono ovviamente precisabili, in parte per l’incerta datazione dei componimenti che ci sono pervenuti ma più ancora perché si tratta di flussi della coscienza nei quali ripensamenti o acquisizioni di certezza, rese o ricuperi, non sono contrassegnati da un lineare svolgimento cronologico. Un momento di crisi e di ricerca può tuttavia essere ravvisato nella constatazione di un contrasto che al poeta non sembra sanabile, tra gioia e dolore, speranza di un bene e timore del male:

Fa davvero una grande prova chi ama per amore

e raramente vede colei in cui ha posto il suo cuore,

se si conserva in vita, male o bene ne abbia,

poiché per l’uno o per l’altro muore languendo di desiderio.

Lo uccide infatti il male per la speranza del bene,

e il bene per la speranza del meglio, tanto la vagheggia;

sicché un perfetto amante non vive senza tormento

quando non gli è dato di vedere la sua donna.

Amando mi uccido e con dolore mi cruccio

per la gioia che il dolore mi allontana, né vale mercede;

ma di me stesso non devo affatto dolermi,

poiché di lei sono, e ben può lei, se le piace, uccidermi;

e se mi uccide non mi offende per nulla

perché accetto ogni male; ma per questo piango:

ché, amandola, non potrò fare né dire cosa che le piaccia,

né potrà lei trovare così fedele amatore.

 

Altrove sembra invece profilarsi una sorta di reciprocità fra l’ “increscioso dolore” e il “gaudio”, alle soglie di una soluzione avventurata, anche se ancora sospetta di precarietà, di una sosta gratificante che non a caso trova l’agio di esprimersi in una dimensione ritmica aperta nella quale può forse far difetto il colore delle immagini, non però quello del canto, intonato sopra una frase larga e sinuosa che si snoda poi in una fuga di voci più rapide e scorrevoli e cangianti, quasi per mimesi musicale di una condizione d’animo ormai vicina alla serenità, se non ancora alla letizia:

Un dardo mi sta tuttavia nel cuore

che il desiderio ha forgiato e la morte temprato;

e mi fa cantare, poiché un grato conforto

mi tiene in gioia, benché mi travagli l’affanno:

davvero è tanto grande

l’onorato pregio invidiato

— a giudizio dei prodi —

di cui va ornata colei che amo;

talché l’increscioso dolore

è gaudio per me, e il danno è profitto;

mille volte in verità preferisco

vivere con lei nel travaglio

e nei tormenti,

che con altra nella fortuna.

 

In altro luogo la reciprocità fra “danno” e “profitto” si risolve in una specie di disegno simbolico, in una dimensione figurativa che tale non è per un eccezionale ricorso del poeta a specifici dati di figura, a trasposizioni in immagini, ma per virtù di un esatto equilibrio dei partiti compositivi. È in effetti un autentico potere d’astrazione che in un breve componimento, forse sopravvissuto alla perdita di una canzone, può dar luogo alla netta partizione fra la plaga della “dolcezza” e quella dell’ “amarezza”, al sovrapporsi e al coincidere dell’una e dell’altra, all’integrarsi di un colore nell’altro, di una forma nell’altra. A questa operazione, a questo gioco intellettuale non recusabile nella sua assolutezza, presiede il “perfetto amore” nel quale il poeta s’identifica al punto che la domanda che da ultimo egli rivolge alla donna amata non ha più neppure gli accenti della preghiera e sembra piuttosto appagarsi in un consentimento già aggiudicato:

Vogliate, se vi piace, donna senza uguali,

che dall’amarezza mi venga una piacevole dolcezza,

poiché se mi angustia l’amarezza per via della dolcezza,

ben deve la dolcezza guarirmi dall’amarezza.

 

Concentrazione e interiorizzazione ci danno qui il loro prodotto più puro e perfetto, per di più impreziosito da una patina d’autoironia così sottile da non potersi quasi percepire: forse anche il prodotto più asettico, non del tutto persuasivo per qualità di esito poetico, poiché la poesia, si sa, è spesso presente nella sua pienezza proprio nei luoghi dove permangono zone opache o imperfezioni o residui di ciò che è fuori dalle intenzioni del poeta o dalla sua medesima attitudine di artista; è presenta, nel caso di Sordello, quando il gioco dell’intelligenza, invece di sublimarsi nell’astrazione assoluta, si personalizza a seguito dell’intrudersi, non voluto ma necessario, di una semplice similitudine nata al di fuori della sua pratica di lavoro, quale egli l’intende. Questo ricupero del privato che gli viene imposto dall’insorgere occasionale di un’immagine non è dunque distraente dal suo fine e per contro lo feconda e lo fa lievitare ed arricchire:

Come l’ammalato che non sa riguardarsi

quando è guarito, per cui il male lo riprende

e, nel suo ricadere, peggiore è il danno che gli reca

di quanto prima non fece, così mi accadde e mi accade

del mal d’amore nel quale son tornato a cadere,

non riguardandomi quando vi ero sfuggito;

e di tal natura è ora il mio male che mai ne guarirò,

se la bella non mi guarisce che vi ha dato occasione.

 

Nella stessa canzone può anche il poeta, sull’abbrivo della similitudine iniziale, cogliere l’occasione per confidare di sé qualcosa di più personale, non strettamente radicato all’essenza della sua interiorità ma non per questo meno intimo, anche se mosso da una vibrazione momentanea dei sensi, da un impulso di gelosia e per conseguenza da un desiderio di rivalsa, in una partita che si gioca a titolo di una rivalità sentimentale sul “coté” mondano più che sulla spiritualità dell’amore cortese:

Un poco mi fa la gelosia trepidare

perché ognuno brama la sua persona gentile

e io non posso a tal segno valere che a lei non sia dato

di trovare un amatore di me più valente.

Se fossi tuttavia da lei giudicato secondo giustizia,

amandola più di ogni altro, meglio sarei riamato.

Ma, comunque vada, più di ogni altro l’amerò,

e suo fallo sarà se verso un’altra mi spinge.

 

E altrove il poeta può confessare comportamenti esterni che riflettono il suo imbarazzo interiore e il timore di un insuccesso, nell’impossibilità non soltanto di rivelare il proprio amore ma persino di comunicare con la donna amata, cosa in contrasto tanto più angustiante con l’alto pregio che a lei deriva dal fatto che nessuno osi manifestarle il proprio desiderio:

So pur stare con tutta l’altra gente

e so come debbo comportarmi,

ma con lei, con la quale più lo gradirei,

non so che dire né fare,

poiché non ardisco dichiarare

come l’amo d’amore perfetto e veritiero.

Sapete perché? Perché ho timore

di perdere l’accoglienza e la buona cera

che usa farmi e il bel sembiante,

se a pregarla insistessi.

 

Qua e là, frammentariamente, altri spunti si colgono di un’inventiva che nasce fuori dalla concentrazione del pensiero, anche se poi torna a riflettersi su di esso assecondandone gli svolgimenti e da ultimo confluendovi come in un irresistibile filone di corrente. Così è dell’odiato bagliore degli specchi, che hanno il torto di sottrarre al poeta la persona della donna amata:

Ho in odio gli specchi, che troppo mi recano danno

rispetto a lei, che mi fa languire nel suo carcere.

Quando mira il suo corpo e il suo volto,

pensando quale essa è, poco apprezza il mio tormento;

e allora gli occhi fanno scendere nel suo cuore

l’orgoglio per cui disdegna il mio amore:

tanto mi tiene a vile e tanto è cara a se stessa

perché vive senza chi l’uguagli di pregio e bellezza.

 

Così è, ancora una volta, dell’accostamento del fiore con la neve, per il quale al di là di ogni angoscia e paura gli è consentita un’adesione gioiosa alla vita, con un contenuto proprio e di chiunque per suo tramite possa averne nozione:

Quando poi rimiro il suo colorito

che pare un fiore accanto a neve quando cade

e la gentile persona che in vita mi tiene

e la grande virtù valente di lei

per la quale il pregio si accresce,

nulla mi manca, nulla mi fa paura

e anzi ne ho tale contento

e tale gioia, e talmente questa cosa mi piace

che gioioso farei chiunque sia in preda dell’ira.

 

Capacità di concentrazione interiore ed estri liberamente inventivi, pur episodici, non risparmiano peraltro il nostro poeta da cedimenti al costume delle oziose disquisizioni d’amore, poste a freddo e portare innanzi nei termini di una dialettica fittizia ma non per questo meno compiaciuta e largamente praticata, specie dagli ultimi seguaci della scuola trobadorica: per esempio, se un amante e un’amica abbiano a tal punto un’unica volontà che, a giudizio di ciascuno dei due, l’uno possa avere gioia senza l’altra, e viceversa; se a un amante sembri più opportuno che l’amica conosca il suo cuore oppure che sia lui a conoscere il cuore di lei; se un cavaliere preferisca perdere o conservare il diletto che gli dà un’amica o l’onore delle armi e della cavalleria; se ami più a fondo, di due donne che amano due cavalieri, quella che richiede dal proprio di distinguersi nelle armi onde suscitare l’amore in lei, oppure quella che prescrive al suo, se desidera essere riamato, che alle armi non pensi per niente; e altre questioni del genere, che lasciano il tempo che trovano e nelle quali tuttavia Sordello s’impegna a fondo esponendo il proprio parere, a volte in dialogo aperto con altri trovatori, su ciascuna con ingegnosità e con sottigliezza di argomenti, ma senza titoli che valgano ad accrescere il suo buon nome e i suoi meriti di poeta.

Di molto non lo accrescono neppure due sirventesi morali che riprendono in maniera sentenziosa motivi già sviluppati negli Ensenhamens d’onor e in altri componimenti di cui si è data notizia. Dal primo si può sottrarre alla dimenticanza, comunque sia, una “cobla” nella quale il poeta sviluppa temi abbozzati altrove precisando con note di maggiore intensità i valori morali che sono connessi, in positivo o in negativo, alla condizione del ricco e del povero:

Ma una cosa voglio farvi intendere,

conforme a ciò che ritengo ragionevole e verace:

che mai un malvagio fu ricco per ricchezze che avesse

né fu povero il prode cui mancasse oro o argento;

poiché il prode, quanto maggiore è la sua indigenza

meglio può dimostrare come sia nobile e valente,

mentre il ricco malvagio, quanto più è d’averi fornito

meglio dà a vedere come codarda sia la sua natura.

 

Così dal secondo sirventese, per una vena più marcata di sarcastico risentimento, può essere utilmente richiamata all’attenzione la “cobla” sull’origine della malvagità umana e sul suo fatale digradare dai grandi agli umili;

Muove dai grandi tutta la malvagità

e poi di grado in grado discende

fino ai minori; perciò non valgono nulla

gioia e pregio, e chi li vuole e gradisce

facilmente può averli, perché se ne fa tal mercato

che per cinque soldi ne hai la derrata e la giunta,

tanto lo tengono a vile i malvagi ricchi e bricconi.

 

Più stringente e condotto secondo un ritmo logico più incisivo, al quale contribuisce a parità di livello la replica dell’interlocutore, è infine lo scambio di “coble” con il trovatore Montan intorno a una questione morale posta al di fuori dell’eventualità di un trattamento sofistico e prospettata per contro in ragione della sconfortata meraviglia che produce il contrasto fra gli ideali del “dono” e del “pregio” e le “belle menzogne” di chi non mantiene le promesse:

“Mi meraviglio Montan, come un barone onorato

dica che cosa sia un bene se conforme non lo fa,

poiché in luogo del dire deve stare il tacere

e conviene che il fare venga prima del dire.

E mi meraviglio che un uomo, senz’animo di mantenere,

possa promettere, perché il falso promettere

taccia di menzognero colui che promette,

a parte il mal nome che l’inganno gli reca”.

“Se fra i malvagi baroni è invalso l’inganno,

non mi meraviglio per niente, Sordello.

Tanto gran cosa sono oggi il pregio e il dono

che il cuore non può fare che la bocca taccia il vero.

Ma l’uomo vile crede così di difendersi

con belle menzogne, e perde invece di pregio,

poiché a buon intenditore non può far credere

che sia bene ciò che di fatto è male”.

 

5. Altro mordente e altro vigore dialettico mostra tuttavia Sordello nei sirventesi personali e dovunque abbia motivo di rivalersi contro chi gli muove accuse che ritiene intollerabili per sé, quale cavaliere e uomo di corte e di lettere. In abito di polemista già lo abbiamo conosciuto nelle vivaci battute che ebbe occasione di scambiare in Italia con Aimeric de Peguilhan e meglio ancora nei tre sirventesi del duello poetico ingaggiato in Provenza con Ricas Novas, del quale si è data ampia illustrazione nella biografia del nostra poeta. A ciò che si è detto in quella sede converrà aggiungere, per un appropriato chiarimento critico, che la letterarietà è sottesa ai tre sirventesi non meno di quanto lo sia quella registrata a proposito delle canzoni d’amore, anche se la frequenza delle notazioni realistiche può dare un’impressione erronea d’immediatezza e di “spontaneità”, come si suol dire con parola che serve soltanto a eludere il complesso problema della creazione poetica. Quando nei tre sirventesi Sordello scrive che Ricas Novas “fra i prodi non è stimato un chiodo”, che “a salvarlo non varrà tutto l’oro di Montpellier / con tanti marchi quanti i ciottoli che stanno nella Crau”, che è pieno di boria solamente “perché sa sculettare e vagheggiarsi” e in luogo delle armi indossa una camicia fresca e mette in capo “un cappuccio ornato di fregi” per montare in groppa a un “ambiante palafreno” e preferisce comparire in pubblico “imbellettato e agghindato / camminando in punta di piedi, appoggiato al bastone, / e con una cinghia attorno ai fianchi rimira il suo corpo sgraziato / e porta camicie ricamate in oro / che la moglie sta a cucirgli tutto l’anno”, tocca bensì con gusto caricaturale i portamenti esterni e l’indole del personaggio, ma la caricatura è per l’appunto lo strumento di mediazione letteraria di cui il poeta si avvale per darci, si è detto, “un personaggio” più che per riprodurre l’ “uomo” Ricas Novas. Le stesse contumelie con le quali lo bersaglia a ripetizione — “menzognero”, “fiacco”, “vile”, “spregevole”, “millantatore”, “tracotante”, “ciarlone”, “briccone”, “fannullone”, “sleale”, “presuntuoso”, “miscredente”, “falso”, “svergognato” — sono mutuate da un repertorio d’obbligo che per osmosi trapassa dall’uso letterario al parlato, dal parlato al letterario, e non a caso culmina in un appellativo metaforico — “cuor di coniglio in sembianza di leone” — che annovera ascendenti letterari remoti (e anche discendenti a noi più vicini, se vogliamo citare il manzoniano don Abbondio, il quale “non era un cuor di leone”).

Per affinità di accenti e di linguaggio ai tre sirventesi contro Ricas Novas è possibile accostare quelli d’argomento politico, il primo indirizzato da Sordello a Raimondo Berengario IV, il secondo detto comunemente dei “tre diseredati”: l’uno e l’altro compromessi da allusioni a eventi poco noti che ne rendono oscura o indecifrabile la lettura e peraltro utili, tutti e due, ai fini di una caratterizzazione degli interessi civili del poeta, orientati alla censura del comportamento dei prìncipi, dell’inopportunità pratica dei loro atti nei rapporti di dominio territoriale più che di potere propriamente politico. Quelli di Sordello, in altre parole, sono giudizi di merito intorno alle personali convenienze dei signori, e valutazioni alle quali si può riconoscere il pregio di una schiettezza non inibita dalla soggezione all’autorità, mentre ciò che si lamenta in lui è la mancata presa di coscienza di una condizione che investa la collettività o che dalla condotta dei prìncipi si rifletta sulla sorte dei sudditi. Basti, a titolo d’esempio, il rimprovero che egli muove a Raimondo Berengario:

Signor mio, questo ho imparato:

c’è un tale nella Gironda

che il meglio del vostro paese

e corte vostra va sbucciando.

Con le loro rendite e con i censi loro,

se Iddio non vi soccorre,

fino in fondo

ciascuno ha in animo di sbucciarvi.

Sono sciocchi però,

perché non badano all’aquila

 

(e cioè non fanno attenzione al re di Francia, che mira a estendere il proprio dominio sulla Provenza, a danno di Raimondo Berengario ma anche di quei baroni che lo vanno “sbucciando”).

Più esplicito nella individuazione delle inconvenienze o convenienze dei prìncipi quanto alla conservazione dei loro domini è il sirventese dei “diseredati”, dove alla censura di biasimo si aggiungono per antifrasi le note di pungente ironia, circostanziate caso per caso, nel concatenarsi delle vicende da principe a principe, con riferimento a colpe specifiche o a generica inerzia e pochezza d’animo.

Primo dei “diseredati” è Giacomo I re d’Aragona, che inutilmente ha tentato di riconquistare Millau, “bravamente” strappatagli dal conte di Tolosa, e non sembra neppure vergognarsene né darsene pensiero:

Disonorato e con poco valore

vive ogni uomo, quando si lascia fare onta

e diseredare senza levar protesta

né opporre resistenza;

e se capisce ciò che intendo dire

il nostro re d’Aragona, ne ho ben piacere,

poiché bravamente fu riconquistata Millau

che già conquistò con valore.

Ma non per questo provò onta né biasimo,

né pattuì tregua né giurò pace.

 

Dopo di lui tocca al conte di Tolosa, che in gioventù conquistò da prode la fortezza di Beaucaire e ora che è spogliato di feudi e del titolo di duca fa invano gran vanto del tempo felice, avendo semmai da lagnarsi della propria pusillanimità:

Quando vede la torre di Beaucaire

ben si deve rallegrare il conte di Tolosa,

poiché con grande onore

ne conquistò l’entrata e l’uscita.

Ma dentro la fortezza

ancora dicono, benché dispiaccia:

–Bel sire, a che vi confortate? —

Ha il conforto del villano

il conte che fu già chiamato duca

e ora non ha intera la contea.

 

Ultimo viene Raimondo Berengario, che torna finalmente a godere le rendite del porto di Marsiglia, dopo che gliele aveva tolte il conte di Tolosa profittandone a suo agio e a disonore di Raimondo:

Ben mi compiaccio del conte mio signore

che con onore riscuote le rendite

del porto di Marsiglia.

Ma tanto fece in altro tempo

che al gran passaggio

le ottenne il conte di Tolosa,

sicché questi se n’è ben provvisto

e il mio signore ne vive onorato.

Potrà facilmente riparare al danno

poiché il Tolosano è in ira alla Chiesa

né chiede perdono dei suoi peccati.

 

6. Motivi differenzianti, nella sostanza, non presenta il Compianto in morte di Blacatz rispetto ai sirventesi politici sopra illustrati, dai quali lo distingue soltanto qualche carattere formale, come il fatto d’intitolarsi “planh”, compianto, e per conseguenza di appartenere a un determinato genere della letteratura trobadorica, e di essere impostato secondo una struttura metrica diversa da quella applicata nei sirventesi.

Il compianto è tale, in definitiva, soltanto nei versi iniziali, dove l’accoratezza del poeta viene indubbiamente dall’intimità di “un cuore triste e smarrito”, ma nella sua espressione, ad un tempo, è un efficace strumento d’uso letterario che avvalora per contrasto, tramite il patetico elogio di Blacatz, le rampogne indirizzate ai “baroni / che vivono senza cuore”:

Piangere voglio il sire di Blacatz in questa facile melodia

con cuore triste e smarrito; e ne ho ben ragione

perché in lui ho perduto un signore e un buon amico

e ogni bella virtù con la sua morte è mancata.

Tanto mortale è il danno che non ho speranza

che possa mai ripararsi, se non in questa guisa:

che gli sia tratto il cuore e ne mangino i baroni

che vivono senza cuore; e ne avranno poi quanto basta.

 

La trovata del cuore offerto in pasto a chi dimostra di essere “senza cuore” — non d’invenzione di Sordello ma da lui ripresa con estro personale dal repertorio di metafore “gotiche” corrente nella letteratura del suo tempo — diventa così il tema conduttore non più del compianto bensì dell’intero sirventese. E la novità di quest’ultimo, con perfetta coerenza di stile, è nella crudezza del biasimo che coinvolge senza distinzione tutti i codardi incoronati che per insipienza o inettitudine si lasciano spogliare dei loro feudi, tutti i pusillanimi “diseredati” non esclusi i tre del sirventese precedente: di un biasimo risentito, acerbo, persino ingiurioso e quasi mai temperato da discorsi antifrastici o da ironie, semmai episodicamente usate per castigare il malcostume di certe famiglie regnanti, dove i sovrani sono succubi dell’autorità arcigna delle madri (com’è del re di Francia, che si guarderà bene dal mangiare del cuore di Blacatz, se questo a sua madre non garba, “perché ben si vede, con suo merito, che non fa cose a lei sgradite”; o come il re di Castiglia, il quale “conviene ne mangi di nascosto, / perché, lo sapesse sua madre, gliele darebbe col bastone”). La manifesta amarezza dei rimproveri ci rende poi ragione persuasiva dell’accento provocatorio e quasi di sfida in prima persona che sigilla il sirventese, nel quale non stona il privato conforto che il poeta spera nondimeno di trovare nella “mercede” della donna amata:

Male mi vorranno i baroni per ciò che dico a ragione,

ma sappiano bene che poco li stimo quanto poco mi stimano.

Bel Ristoro, purché io possa trovare mercede presso di voi,

non tengo in alcun conto chi non mi tiene per amico.

 

Non tutti concordano sul primato del Compianto nella letteratura trobadorica d’ispirazione civile, in particolare Cesare De Lollis, al quale non sfugge come Sordello, al pari di altri trovatori di lui più antichi e presso altri posteri di interi decenni, obbedisca “a quella tendenza connaturata alla poesia provenzale di irrigidire in formule di convenzione sentimenti e idee che pure, in origine, rispondevano alla realtà dell’ambiente”. Riconosce tuttavia il medesimo De Lollis che la trovata del cuore offerto in pasto a chi mostra di non averne ha avuto il buon effetto di spingere “il poeta fuori della carreggiata solita dei compianti”, concepiti per lo più sull’antitesi, “scialba e insignificante, tra le qualità buone del morto e quelle prave di tutto il resto del mondo”. La trovata, se così vogliamo continuare a chiamarla, non è però solamente uno spunto innovativo nella letteratura dei compianti ma ha anche il potere di far coagulare un impasto materico di per se stesso informe ed emotivamente accumulato, e di mettere in rilievo ad un tempo, al di là di una semplice enumerazione di censure, i dati d’interazione di uno stato di fatto e il profilo umano dei singoli personaggi. Anche in merito al conforto privato che il poeta confida di ottenere dall’amore della sua donna il De Lollis ha ragione di che eccepire, notando come la clausola finale del Compianto appartenga ai luoghi comuni dei sirventesi politici di altri trovatori, quale invocazione di prammatica alla “gioia d’amore che garantisce il poeta dalle sozzure principesche”: il che può rispondere al vero circa la convenzionalità del motivo, ma nella parola di Sordello questo motivo ci sembra avere una sua giustificazione psicologica ed essere segnato da un’impronta melodica che si accorda in sobrio chiaroscuro, come si è accennato più sopra, con le note severe, e a volte indignate, di biasimo e di ammonimento.

Al di là di una valutazione di merito sulla poesia del Compianto, resta piuttosto da chiarire il concetto di politica in Sordello, o quanto meno il tipo d’interesse e di sensibilità che egli dimostra di avere per le cose della politica, per ciò che lo riguarda soggettivamente e per i riflessi che il suo atteggiamento ha potuto avere, come è noto, sulla poesia di Dante.

Evidentemente Sordello non è uomo di parte. Il suo distacco da un ambiente di piccola nobiltà campagnola, in piena civiltà comunale, è anzi il primo momento di una scelta che lo porta per via diretta a farsi uomo di corte, in una posizione di autonomia consapevolmente relativa, favorita in ogni caso dalle sue attitudini di cavaliere e di poeta e da un’autoeducazione maturata in luoghi diversi ma costantemente in cerchia di signori. Con i detentori del potere si può intuire che mantenga un rapporto improntato a devozione, non a piaggeria, e un’attenzione critica non dissimulata ma rivolta, più che alle qualità di governo, alla capacità dei prìncipi di conservare l’integrità territoriale del loro dominio, inteso come proprietà privata di ascendenza feudale con i titoli che vi sono annessi. “Diseredato” è perciò parola-chiave nel lessico politico di Sordello, il quale vede come “diseredati” i prìncipi inetti, insipienti, infingardi, privi di “cuore” e cioè di quell’energia attiva che varrebbe a preservarli da ogni spoliazione di terre e di diritti feudali, a cominciare dall’imperatore Federico II, umiliato dai Milanesi, per finire con il conte di Provenza che si è lasciato togliere da altri le rendite del porto di Marsiglia; e solo incidentalmente, quanto all’esercizio dell’autorità di governo, il poeta manifesta episodiche riserve sugli eccessi di fiscalismo o qualche apprezzamento sugli atti di liberalità.

Con questo Sordello è chiaro che Dante non condivida che l’implicito disprezzo per “ogni villan che parteggiando viene”, anche se l’educazione politica del fiorentino segue l’itinerario che va dall’uomo di parte, in pratica mai del tutto sconfessato, e arriva alla concezione della centralità del potere e alla dottrina della monarchia imperiale. Neppure si può dire che Sordello rappresenti per Dante il giudice impavido dei potenti, come potrebbe far pensare il Compianto per il sire di Blacatz: il personaggio storico dell’autore del Compianto ha per lui il prestigio del poeta non servile e perciò degno di essere assunto a modello del cittadino non di parte che solo al “dolce suon de la sua terra”, di quella Mantova che affettuosamente lo accomuna allo spirito di Virgilio, è subito pronto “di fare al cittadin suo quivi festa” a vergogna di quei “vivi” che “non stanno sanza guerra” “e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra”.

Nel canto VI del Purgatorio Sordello diventa così la figura ideale del patriota non dimentico di ciò che lo lega non tanto al luogo di nascita quanto alla comunità nella quale affondano le sue radici: di un “patriota” che conviene ripulire dalle interpretazioni pretestuose di certa pubblicistica risorgimentale, tali da creare di lui un’immagine posticcia e non dissimile, nella sostanza, da quella costruita dalla sua secolare leggenda.

 

7. Per scrupolo di completezza è qui da ricordare un Sirventese lombardesco attribuito da Giulio Bertoni al nostro poeta sulla base di un passo dantesco del De vulgari eloquentia, dove si legge che il mantovano Sordello si mantiene linguisticamente equidistante dalle parlate di Brescia, Cremona e Verona, per cui al trovatore di Goito sarebbe da assegnare questo tentativo di trasferire in “lombardo” i modi del sirventese provenzale, come si dichiara nelle strofe d’inizio:

Poi qe neve ni glaza

non me pot far guizardo,

e qe dolzamentr’ardo

en l’amor qe m’abraza,

ben è razon q’eo faza

un sirventés lonbardo,

qé del proenzalesco

no m’acresco: — e fòra cosa nova,

q’om non trova — sirventés lombardesco.

 

È certo molto suggestiva l’ipotesi che Sordello, il quale non è fatto vizzo (guizardo) da neve né da ghiaccio e arde invece dolcemente d’amore, tenti di scrivere un sirventese lombardesco non potendo gloriarsi di sirventesi in provenzale. Qualche perplessità tuttavia rimane, proprio perché Sordello aveva buoni motivi per gloriarsi di sirventesi in provenzale, e può essere superata soltanto col datare il componimento agli anni giovanili del poeta e in ogni caso ad epoca antecedente la sua andata in Provenza.

[Capitolo tratto da: Emilio Faccioli, Sordello da Goito, Tipografia Grassi, Mantova, marzo 1994, pagg. 27-52]

 

 

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