LA STORIA DELLA “SAGRA DEL PIT”: IPOTESI QUASI SERIA SULL’ORIGINE DELL’ANTICA SAGRA DI TORRE

Da molti anni il primo giorno di quaresima viene salutato a Torre di Goito con una sagra paesana, la “Sagra del Pit”, che a detta degli anziani del luogo sembra avere origini molto lontane, anche se in epoca recente era andata in disuso per un certo periodo.
Si tratta di un appuntamento al quale i goitesi tengono molto, ma io, essendo nato e vissuto a Mantova, la frequentavo in maniera un po’ distratta, cogliendo l’occasione per una passeggiata nei primi pomeriggi di fine inverno, quando il sole comincia a riscaldare e l’aria è ancora tersa.
Non mi stupiva più di tanto il fatto che in una giornata dedicata alla liturgia delle Ceneri e al “memento” della provvisorietà della vita umana, ci fosse qualcuno che faceva festa. Si trattava certamente di una eredità pagana, che sopravviveva all’avvento della cultura cristiana, e che si poteva ritrovare in altre, anche se non frequentissime, occasioni. Soltanto nella nostra provincia conoscono tutti la sagra che nello stesso Mercoledì delle Ceneri si tiene a Casteldario, o quella di Asola nel giorno dei defunti. Curiosa ma simpatica coesistenza di sacro e di profano.
Osservavo quindi con un certo distacco la gente che assisteva a quella specie di giostra medievale con cavalieri, più o meno abili, intenti a fare la festa ad un povero tacchino appeso ad una forca con la testa all’ingiù. Almeno per un po’, perché poi la testa gli volava via per un colpo ben assestato, ed era tutto finito.
C’è stato addirittura un periodo, verso la fine degli anni ottanta, che quella giostra mi evocava emozioni spiacevoli, mi sembrava tutto un po’ barbaro, soprattutto perché‚ i miei figli, che nel frattempo erano nati, cresciuti ed ora accompagnavano me e mia moglie alla sagra, guardavano con pietà e commiserazione la povera bestia sacrificale, e tutti trovavamo qualche consolazione nel pensare che almeno avevano avuto la creanza di appenderla già morta.
Il mio interesse per questo tradizionale evento si fa però molto vivo il giorno in cui leggo sulla Gazzetta di Mantova che un giornalista di Bari, o giù di lì – non ricordo bene -, si interessa a questa Sagra di Torre perché in un paesino pugliese si tiene una manifestazione molto, ma molto simile alla nostra giostra del pit.
Per quel poco che sapevo di antropologia, e per quel tanto che premeva la mia curiosità, ho pensato che quando due fenomeni si presentano in forma analoga in punti così distanti sul territorio, probabilmente hanno una comune origine, e questa si colloca molto lontana nel tempo, perché una cultura (un costume, una tradizione), specie in assenza di mezzi di comunicazione veloci, impiega molto tempo a spostarsi nello spazio. Avevo quasi scoperto l’acqua calda. In fondo l’intuizione che si trattasse di un eredità pagana l’avevo già realizzata, quindi avevo semmai trovato una conferma indiretta alla mia supposizione. Le sembianze pagane e l’origine remota sembravano accordarsi.
Ma se queste due cose coincidevano e si confermavano a vicenda, era chiaro che ce n’era una terza che non quadrava. Troppo giovane!…troppo giovane, mi andavo ripetendo.
Sfogliai l’enciclopedia e lessi:…(Meleagris gallopavo) grosso uccello carenato, ord. galliformi (fam. meleagridi), oriundo delle Indie americane (Messico) e detto perciò gallo d’India, allevato su vasta scala anche in Italia, per le sue carni.
Troppo giovane… il tacchino non poteva essere.
Le Americhe Colombo le ha scoperte solo cinquecento anni fa, e ciò significava che, o non era vera la mia teoria secondo cui si trattava di un fenomeno di origini molto antiche, o non poteva trattarsi di un tacchino.
Da dove usciva fuori allora il “pit”? Stai a vedere -mi dicevo- che invece è andata che, metti cento anni fa, un pugliese è venuto al nord per i fatti suoi, o un goitese è sceso al sud -che è lo stesso-, si è fermato per qualche tempo, ha fatto amicizia con la gente del luogo… e magari in una sera d’inverno all’osteria ha raccontato che ” al suo paese…un tacchino…e tutti i cavalieri con le spade di legno, zac… e poi una gran festa… e …”, e va a finire che una volta o l’altra lo facciamo anche noi.

Probabilmente è andata davvero così.
Ma…vuoi mettere il fascino di pensare che invece, al posto del tacchino, che ha cominciato a pendere dalle forche di quaresima soltanto cinquecento anni fa, prima c’era qualcos’altro?
Gli zoologi (ma anche i biologi, i medici; gli economisti e i tecnici in genere no, loro amano l’inglese) sono soliti dare alle specie che studiano nomi latini, e il latino, ai tempi di Colombo non lo si usava più da un pezzo. Quel “Meleagris…” doveva allora significare qualcosa già prima di essere affibbiato al tacchino!
Tornai a sfogliare, questa volta, il vecchio vocabolario di latino che usavo alle medie.
Toh!, quasi me lo sentivo. Scavi, e… rispuntano delle piume!
Meleagris, idis, f., plur. -des = galline faraone.
Non era un gran passo in avanti, ma ero contento lo stesso. Almeno queste, pensavo, potevano pascolare dalle nostre parti ( e lasciarsi appendere alle forche di quaresima ) senza dover aspettare che Colombo salpasse in cerca del Nuovo Mondo. Il tacchino certamente no!
Quindi, la mia ipotesi che la sagra del “pit” fosse in effetti più antica del “pit”, godeva di ottima salute, o almeno non aveva ricevuto clamorosa smentita. Rimaneva solo da spiegare qualche piccolo dettaglio – si fa per dire -. Per esempio: che male avessero mai fatto le galline faraone per venire appese in quel modo. I miei occhi scesero di qualche riga e trovarono un dato che lì per lì non riuscivo a capire come avrei potuto utilizzare. Quel f., plur. – des, sta anche per: sorelle di Meleagro trasformate in galline faraone; e non è finita, al sing. significa “madre di Meleagro” cioè Altea.

Ci mancava anche la mitologia!
Mi ronzava in testa da un po’ la facile assonanza tra mito e rito, mentre tentavo di fare il punto della situazione.
Dunque, abbiamo una sagra che rievoca una tradizione, vecchia non si sa di quanto, di sapore pagano perché in contrasto con la più recente liturgia cristiana, che prevede ben altri riti per il mercoledì delle Ceneri. Un tacchino, che poi forse era una faraona, impiccato per i piedi, a cui una giostra di cavalieri stacca la testa con spade di legno. E la faraona e il tacchino che hanno lo stesso nome scientifico di un personaggio della mitologia greca.
Un bel rebus. Mito…rito…
I miti, che io sappia, sono quelle storie fantastiche che nella cultura antica servivano a dare spiegazioni sulle grandi domande che l’uomo si poneva sulla sua origine, sull’origine del mondo, sul perché dei segreti della vita. Quelle stesse domande che noi ci poniamo oggi e alle quali cerchiamo di dare una risposta attraverso la scienza.
E i riti? Anche quelli c’erano ieri e ci sono anche oggi. Mi vengono in mente i riti di iniziazione, che ora si chiamano: battesimo, cresima, esame di maturità ecc. Quelli propiziatòri, che servivano nelle culture pagane per ingraziarsi il dio dei raccolti o quello della caccia, o quelli più moderni che affidano a S.Biagio la salute della nostra gola, chiusa in una forbice di candele benedette.
Che sia qui la chiave? I riti riprendono tradizioni, rappresentano un evento o un desiderio, o allontanano una paura, servendosi di simboli: il pane e il vino stanno per il corpo e il sangue di Cristo, le S.Ceneri per la corruttibilità del corpo.
Forse che le faraone-tacchini non avessero fatto nulla di così nefando da meritarsi quel castigo? Che siano -pensavo- solo un simbolo che rimanda a qualche altro significato?
Questa lunga riflessione non mi aveva portato a nessuna soluzione, anzi, mi aveva posto un problema in più. Ma almeno avevo un punto fermo da cui partire.
Chi o che cosa sta(va) dietro le faraone-tacchini appesi e decollati? Non mi restava che cercare di sapere qualcosa di più sul mitologico Meleagro.
Trovai una prima definizione che lo indica figlio di Eneo, re di Calidone e di Altea, celebre per la sua fine tragica, poichè la sua vita dipendeva da un tizzone spento, che la madre, per vendicare la morte dei fratelli, uccisi da Meleagro, gettò nel fuoco e così cagionò la morte del figlio, uccidendosi poi per disperazione. Terribile! Quasi peggio di una soap opera.
Ma queste informazioni non mi davano nessun nuovo punto d’appoggio. Occorreva cercare ancora.
Per scoprire che il Nostro prese parte alla spedizione degli Argonauti e alla caccia al cinghiale calidonio. Quando Meleagro nacque, le Moirai posarono un tizzone acceso sul focolare di Altea, dicendo che il piccino sarebbe vissuto finchè il tizzone non si fosse consumato. La madre si affrettò a ritirare dalle fiamme il pezzo di legno acceso, e, dopo averlo spento, lo custodì gelosamente.
Meleagro era già un giovinetto quando, narra Ovidio nelle Metamorfosi ( VIII, 270 e segg.) Eneo, felice per l’abbondante raccolto di quell’anno, rese onore a tutti gli dei dell’agricoltura, … dimenticandosi però di Artemide che se la legò al dito: “Non rimarrò invendicata: si dirà che son rimasta priva di onori, ma non senza vendetta”, e mandò nei campi di Eneo un cinghiale vendicatore, “così grande che maggiori non sono i tori dell’erbosa Epiro”. Parola di Ovidio.
La terribile fiera prese a devastare le campagne di Calidone e fu allora che, un po’ per gloria (e anche per disperazione) si unirono in schiera Meleagro e una accolita di baldi giovani tra cui Castore, Polluce, Teseo, Giasone… e pur’anche una impavida donzella, Atalanta, bella e forte cacciatrice d’Arcadia. Ovidio narra che “il cinghiale, scovato, si slanciò furente contro i nemici, come il fulmine che scaturisce dalle nubi cozzanti”. Nella sua corsa schiantò alberi e parte della schiera di cacciatori nemici. Atalanta riuscì a ferire il cinghiale ad un orecchio e poco dopo fu Meleagro a dargli il colpo di grazia. L’eroe …calca con il piede la feroce testa e così dice: “Prendi, Atalanta, la spoglia che mi appartiene di diritto, e la mia gloria venga divisa con te”. E le consegna la pelle irta di setole e la testa orrida per gli enormi denti. Pelisippo e Tosseo, gli zii materni di Meleagro – anche loro della schiera – pretesero che Atalanta consegnasse loro le spoglie del cinghiale, ma Meleagro, sdegnato, li uccise in un impeto d’ira.

La storia proseguiva e finiva in modo ancor più tragico, nella versione di Ovidio. Diversa invece in quella di Omero.
Ma io mi fermai qui perché avevo trovato un elemento che giudicavo interessante.
Meleagro aveva qualcosa a che fare con una testa mozzata!
Sì, il mio filo conduttore che teneva insieme tacchini decollati, faraone e riti pagani…aveva a che fare con una testa mozzata.
Il cerchio era chiuso. Non possono essere tutte coincidenze, esultavo. La mia ipotesi era quasi un teorema dimostrato.
Avevo cantato vittoria troppo presto, perché subito pensai a che razza di rito doveva essere quello in cui si rappresentava la decapitazione di un tacchino-faraona che avrebbe dovuto ricordare l’eroe mitologico Meleagro. Un rito del genere non poteva essere mai esistito. Non si era mai sentito di una festa fatta in onore di un eroe… a cui si stacca la testa. Sarebbe come mangiare per cena l’ospite d’onore.

In effetti, nella storia, anzi, nella mitologia, Meleagro fa una brutta fine. Viene ucciso addirittura da sua madre, che vendica così l’assasinio dei suoi fratelli. E questo non guasta perché anche nella tradizione rituale della sagra, Meleagro-tacchino non ha sorte migliore.

Sì, ma perché? Che senso ha?
Il rito inizialmente doveva avere per forza un’altra funzione. È chiaro, sono i miti che parlano degli eroi, non i riti. I riti parlano direttamente con gli dei. Propiziatòri o di ringraziamento, tutti i riti di questo mondo hanno per destinatario un qualche dio.

Dopo qualche riflessione realizzai una congettura che poteva sembrare più plausibile della precedente. Il destinatario del rito doveva essere Artemide. Si trattava di una sorta di rito di riconciliazione con Artemide offesa, anzi, doppiamente offesa. Prima da Eneo che si dimentica di tributarle i dovuti sacrifici. Poi da quel disgraziato di suo figlio che le uccide il cinghiale mandato a lavare l’onta.
Temendo che l’ira di Artemide (per i Greci, Diana per i Romani), competente per il dipartimento della caccia, si sarebbe rivelata sotto forma di magri carnieri e di troppo frugali pasti, qualcuno avrà pensato bene che era il caso di pareggiere i conti, a scanso di equivoci.
Hai tu, Meleagro, mozzato la testa del cinghiale calidonio, raccomandato da Artemide in persona? E noi (bella riconoscenza) taglieremo la testa a te. In eterno.
Ed è così che ancor oggi, in quel di Torre , si rievoca l’antico rito di riconciliazione con la dea della caccia.
Se non è vera, è ben trovata. Sì, perché mi sono così divertito a trovarla, vi ho impegnato tanta di quella immaginazione per riannodare fili che pendevano da tutte le parti, che se fosse semplicemente vera, la mia storia mi piacerebbe un po’ meno.
Forse mi conforta di più pensare che sia solo possibile.

Paolo Belladelli